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Capitolo Secondo

Nascita, evoluzione e struttura organizzativa dell’ASEAN

 

 

"L'Oriente è l'Oriente, e l'Occidente è l'Occidente, e i due non si incontreranno mai".
Rudyard Kipling

 

 

 

 

2.1 Nascita dell’ASEAN

A dieci anni dalla firma del Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Economica Europea, da parte di sei paesi europei (Belgio Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Repubblica Federale Tedesca), un numero quasi analogo di stati neoindipendenti del Sud-est Asiatico (Indonesia, Filippine, Malaysia, Singapore e Thailandia) decretarono, con la sottoscrizione della Dichiarazione di Bangkok (8 agosto 1967), la nascita di un nuova organizzazione regionale, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico.

La formazione dell’ASEAN rappresentò, a tutti gli effetti, la conferma dell’indipendenza e della maturità politica dei paesi fondatori. Essa era, difatti, la prima organizzazione regionale non fallimentare che non includesse e non fosse sponsorizzata da alcuna superpotenza.

Essa, inoltre, non assumeva nei confronti degli altri paesi sudorientali un atteggiamento di chiusura ma prevedeva nella stessa dichiarazione costitutiva (punto 4) la partecipazione e la possibilità d’adesione a quelle di esse che avessero condiviso gli stessi principi ispiratori.

Le ragioni sottese al compimento di questo importante passo, all’indomani del fallimento di precedenti tentativi di coesione regionale, furono prevalentemente di ordine politico ed economico.

Gli obiettivi delle nazioni ASEAN furono essenzialmente tre:

1) promuovere, attraverso l’implementazione di programmi di cooperazione, lo sviluppo economico, sociale e culturale della regione.

2) salvaguardare la stabilità economica e politica della regione dalla concorrenza delle grandi potenze.

3) servire come foro di discussione per la risoluzione di questioni infraregionali.

Qui di seguito saranno analizzate più dettagliatamente le ragioni politiche ed economiche che hanno determinato la nascita dell’ASEAN.

 

2.1.1 Ragioni politiche

Tra l’insieme di ragioni che hanno determinato il sorgere dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico quelle di ordine politico hanno inciso in maniera prevalente. Esse sono maturate in virtù dello scenario, caratterizzato da forte turbolenza ed instabilità, sviluppatosi in questa regione, e più in generale nel continente asiatico, negli anni ‘60.

Con il progressivo venir meno, già a partire dal dopoguerra, della catalizzante presenza delle ex-potenze coloniali, sorsero tra alcuni paesi di quest’area delle spinosi questioni. Le divergenze politiche ad esse inerenti rischiarono di degenerare in veri e propri conflitti armati su larga scala.

Il disimpegno britannico nella regione, testimoniato dall’assegnazione dei protettorati di Saba e Sarawak alla neoindipendente Malesia, fu l’esempio più tangibile degli squilibri e dei forti contrasti generati dal vuoto di potere creatosi con il dissolversi degli antichi legami coloniali.

La questione dei territori di Saba e di Sarawak riaccese i fermenti nazionalistici di quei paesi che ne rivendicavano da tempo la sovranità o che, ad ogni modo, non vedevano di buon occhio la loro annessione, attraverso la costituzione di una nuova entità federale, da parte della vicina Malesia.

Quest’ultima posizione politica fu assunta, come più volte evidenziato nel precedente capitolo, dal governo indonesiano. L’Indonesia, allora guidata da Sukarno, si rifiutò di accettare la neocostituita Federazione della Malaysia e, per tutta risposta, diede inizio ad una politica di scontro, eufemisticamente definita di confronto (Konfrontasi), caratterizzata da sabotaggi ed azioni di guerriglia.

Soltanto dopo il colpo di stato militare del 1965, che depose Sukarno a favore del longevo ex-capo di stato indonesiano Suharto, si poté assistere ad un ristabilimento del dialogo tra queste due importanti pedine dello scacchiere regionale.

Quello di Giacarta, comunque, non fu l’unico governo a contestare la nascita della allargata federazione malese. Le Filippine, a questo riguardo, esercitarono la propria attività di rivendicazione del territorio di Saba con altrettanto vigore.

Le elezioni del presidente Marcos nel 1965 favorirono lo sfumarsi dei toni di questo contendere, ma esso non poté dirsi del tutto concluso per di altri dieci anni, minando inizialmente la sopravvivenza stessa dell’ASEAN.

Queste dispute politiche e territoriali furono la causa, come visto nel precedente capitolo, dell’estinguersi di alcune delle prime forme organizzative regionali autodeterminate (ASA e Maphilindo) rientranti, per convenzione, nella seconda fase del regionalismo.

Un ulteriore elemento di squilibrio politico fu rappresentato dalla degenerazione del conflitto che vide intervenire gli Stati Uniti in Vietnam nel tentativo di arginare la pressione comunista. Tale conflitto, iniziato con l’incidente di Tonchino del 1964, provocò profonde spaccature all’interno di molti paesi sudorientali tra fazioni pro ed anticomuniste.

Era altresì il periodo dell’escalation, nella Repubblica Popolare Cinese, del fenomeno del fanatismo maoista e della sua "rivoluzione culturale proletaria"; con essa Mao Tse-tung si prefiggeva l’obiettivo, fra l’altro, di rivitalizzare gli spiriti rivoluzionari delle masse, anche contro la concomitante guerra del Vietnam (IMAGAWA-HAMA 1968).

A tal fine, il governo cinese cercò di favorire indirettamente alcuni movimenti insurrezionali, guidati dai locali partiti comunisti, in Malesia, Singapore, Thailandia e Filippine, ed appoggiò attivamente il partito comunista indonesiano.

La minaccia comunista interna ed esterna allarmava, così, molti degli ancora fragili stati dell’area e li spingeva ad unire le proprie forze per esercitare azioni di contrasto concertate, anche se di natura non militare.

In questo scenario geopolitico alquanto instabile cresceva il bisogno di dare luogo ad una nuova formazione regionale che, attraverso la previsione di un foro di discussione e di risoluzione dei problemi locali potenzialmente destabilizzanti, garantisse il mantenimento della pace e della stabilità nel Sud-Est Asiatico.

A tali obiettivi si aggiungeva quello di controbilanciare la concorrenza politico-economica esercitata dalle grandi potenze. Tra di esse va in particolar modo segnalato il Giappone, con la sua crescente forza economica, e la Cina, con il suo considerevole potenziale militare e, nel lungo termine, economico.

In un’ottica introspettiva, la formazione dell’ASEAN servì dunque gli interessi politici di tutte le nazioni partecipanti.

Per Indonesia e Malaysia essa era il mezzo per ristabilire relazioni amichevoli e per chiudere la spiacevole breve parentesi della politica di Konfrontasi di Sukarno.

Per la Thailandia, stato di frontiera con il Vietnam, l’adesione all’associazione ribadiva il proprio orientamento anticomunista e comportava l’appoggio dei paesi vicini.

Per Singapore, cittá-stato a maggioranza cinese, essa era un mezzo per salvaguardare, a pochi anni dalla decisione di distaccarsi dalla Malaysia, la propria sovranità ed autonomia in un contesto malese ancora potenzialmente ostile.

Per le Filippine essa era vista quale veicolo di discussione e risoluzione delle proprie sopracitate rivendicazioni territoriali su Saba (TAN 1995).

A ciò si aggiunga che, a pochi anni dalla conquista dell’indipendenza, tutti i paesi fondatori dell’ASEAN si rendevano conto che l’antico ordine coloniale, volente o nolente, stava arrivando ad un termine e ritenevano conseguentemente necessario far fronte in modo collettivo all’incertezza futura.

Le ragioni politiche che hanno determinato il concepimento dell’ASEAN, quindi, sono maturate sia in virtù di comuni cause esterne di forza maggiore, e sia in virtù di singoli interessi perseguiti da ciascun paese fondatore.

Il raggruppamento regionale, attraverso l’amplificazione della consultazione, del dialogo, della cooperazione e del peso relativo rivestito in un contesto internazionale sempre più teso alla globalizzazione, rispondeva più di qualsiasi altro modello al soddisfacimento dell’insieme di questi comuni e singoli interessi.

Nonostante la retorica ufficiale della Dichiarazione di Bangkok, il senso d’identità ed il sentimento collettivo di appartenenza ad una medesima comunità regionale non si ponevano, ancora una volta, alla base delle ragioni fecondatrici di questa nuova iniziativa aggregante.

Non a caso la loro mancanza ha forse evidenziato, almeno nei primi tempi di vita dell’associazione, il limite operativo più difficile da superare nella strada dell’integrazione.

 

2.1.2 Ragioni economiche

Sebbene le ragioni politiche e di sicurezza furono prevalenti nel concepimento dell’associazione, quelle economiche, racchiuse nella Dichiarazione di Bangkok sotto formule di portata generale, non sono state, almeno sulla carta, meno significative.

La Dichiarazione le sintetizza nel perseguimento dei seguenti obiettivi:

a) "Accelerare, attraverso sforzi comuni, la crescita economica, …, nella regione …".

b) "Promuovere una collaborazione attiva ed una mutua assistenza su questioni di comune interesse nel campo economico, sociale, culturale, tecnico, scientifico e amministrativo".

c) "Fornire assistenza reciproca, in termini di formazione e strutture di ricerca, nel campo educativo, professionale, tecnico e amministrativo".

d) "Collaborare più efficacemente per un maggiore sviluppo delle proprie agricolture ed industrie, per l’espansione dei propri commerci, …, per il miglioramento delle proprie infrastrutture di trasporto e comunicazione e per l’incremento dello standard di vita delle proprie popolazioni".

e) "Mantenere una stretta e benefica cooperazione con le organizzazioni regionali ed internazionali aventi simili scopi ed obiettivi".

La promozione a livello regionale della cooperazione economica era dunque uno degli obiettivi prefissati dell’associazione e la ragione, economica anch’essa, della sua formazione. L’esplicitazione concreta di tale dettato rimase in verità a lungo inevasa.

L’implementazione di progetti cooperativi, iniziata solo a partire dalla meta degli anni ‘70, non ebbe per di più molto successo.

Questo dimostrava che, almeno agli inizi, l’ASEAN avvertiva come priorità le sole questioni politiche e di sicurezza.

I principali indicatori socioeconomici dei paesi fondatori mostravano, già all’epoca della nascita dell’associazione, una gamma molto ampia e diversificata di situazioni strutturali (Tabella 2.1).

Agli estremi opposti vi erano l’Indonesia e Singapore. La prima a fronte della popolazione di gran lunga più numerosa contribuiva solo per il 30% del P.I.L. totale; la città-stato di Singapore, al contrario, pur avendo una popolazione di soli 2 milioni di abitanti contribuiva per il 6% del prodotto lordo totale dell’associazione.

In virtù del rapporto tra queste grandezze, non appare strano rilevare come il reddito pro-capite indonesiano fosse il più basso e quello dei cittadini di Singapore il più elevato.

 

Tabella 2.1 Principali indicatori socioeconomici nell’anno di nascita dell’ASEAN.

ASEAN-5
(1967)

Popolazione
(milioni)

P.I.L.
(milioni di $)

P.I.L.
pro capite
($)

Membri ASEAN

Filippine

Indonesia

Malaysia

Singapore

Thailandia

TOTALE ASEAN-5

 

35

111

10

1,9

33

190,9

 

5.272

5.950

2.476

1.286

5.205

20.189

 

171

50

260

550

151

106

Altri paesi sudorientali

Birmania

Brunei

Cambogia

Laos

Vietnam del Sud

 

26

-

6

2,7

17

 

-

-

982

-

2.032

 

-

-

150

-

105

 

Fonte: ONU

 

Simili considerazioni potevano essere addotte anche in relazione alla estensione ed alla morfologia del territorio e ad altri fattori geo-economici caratterizzanti i paesi componenti.

L’obiettivo economico di lungo periodo che ha contribuito alla formazione dell’associazione era, inoltre, la creazione di un’area di libero scambio o, nell’eventualità in cui ci fossero state le condizioni e le opportunità, di un mercato comune tra i paesi membri.

Ciò fu esplicitamente confermato in occasione del quarto incontro ministeriale ASEAN (AMM), allorché il presidente filippino Marcos annunciò che l’obiettivo finale dell’associazione sarebbe stato l’implementazione di un mercato comune sullo stampo di quello della Comunità Economica Europea.

Ciò avrebbe significato il sorgere di un mercato di circa 200 milioni di persone che, fra l’altro, avrebbe permesso ai produttori di beneficiare di significative economie di scala.

Gli effetti ed i benefici di una tale implementazione sono molteplici e individuati da tempo dalla cosiddetta teoria delle unioni doganali.

Seconda tale teoria alla riduzione delle tariffe tra i paesi componenti il mercato comune si verifica una correlata riduzione del prezzo delle importazioni infraregionali che stimola le rispettive domande interne. Questo fenomeno è conosciuto, nella letteratura anglosassone, con il termine di trade creation (creazione di traffici commerciali).

L’espansione degli scambi infraregionali è dunque il risultato della riduzione delle tariffe.

A questo effetto positivo può accompagnarsi uno negativo: lo spostamento dei traffici commerciali dai partner estranei all’unione doganale ad i paesi membri beneficiari delle riduzioni tariffarie. Il fenomeno è conosciuto come trade diversion (diversione dei traffici commerciali). Ciò può comportare un’inefficiente allocazione delle risorse qualora il differenziale tariffario tra paesi membri e paesi esterni falsifichi i rapporti di grandezza in termini di prezzo tra i beni prodotti all’interno dell’area di libero scambio e quelli, in origine eventualmente più convenienti, prodotti al suo esterno.

La possibilità, quindi, che i paesi membri possano non essere la più conveniente fonte di importazione va presa in considerazione poiché i traffici possono essere deviati da produttori a basso costo a produttori a costo relativamente più alto.

Gli effetti sopracitati possono essere traducibili mediante una rappresentazione grafica (TAN 1995). <NON DISPONIBILE NELLA VERSIONE INTERNET>

Nella figura 2.4, Da rappresenta la domanda per un certo prodotto nel paese A, e Sa la curva di offerta interna del prodotto. Si suppone, per semplicità, che il paese A possa effettuare scambi commerciali solo con altri due paesi, B e C. Il loro rispettivo prezzo di esportazione del prodotto è uguale a Pb e Pc. Il paese B è un produttore più efficiente (Pb<Pc). Si supponga che il paese A introduca delle tariffe (T) sia verso B che C. Il prezzo di importazione del prodotto dal paese B diventa così Pb' (dato da Pb+T), ed il prezzo di importazione dal paese C diventa Pc' (dato da Pc+T). Poiché il prezzo di importazione dal paese B è inferiore di quello dal paese C (Pb'< Pc'), il paese A importa il prodotto, anche dopo l’introduzione della barriera tariffaria, dal paese B. La quantità importata da questo paese è QsQd, dato che i produttori interni offrono 0Qs al prezzo d’importazione Pb'. La quantità di entrate tariffarie registrate dal paese A è uguale a AGHE.

Si supponga ora che il paese A dia vita, insieme al paese C, ad un’unione doganale. La tariffa sul prodotto applicata da A a C sarebbe di conseguenza eliminata ed il prezzo tornerebbe a Pc. Poiché tale prezzo è ora inferiore a Pb', il paese A avrà convenienza ad importare da C anziché da B (ancora colpito da tariffa). La quantità QsQd che inizialmente era importata da B sarebbe in questo caso importata da C. Questo è l’effetto di trade diversion.

Al prezzo inferiore d’importazione Pc, si stimolano importazioni addizionali. Esse, rappresentate da Qs'Qs, sono causate dalla diminuzione di offerta del prodotto da parte dei produttori interni a seguito della riduzione del prezzo d’importazione Pc dal paese C. A questo prezzo inferiore corrisponde un incremento di domanda rappresentato da QdQd'. Queste importazioni addizionali dal paese C si configurano come trade creation.

All’inferiore prezzo d’importazione Pc, il guadagno per i consumatori corrisponde al triangolo ABC (surplus produttori) e DEF (surplus consumatori). Nella diversione dei traffici da B a C, inoltre, il paese A perde le entrate tariffarie (AGHE) precedentemente raccolte.

Ciò che è rilevante notare in questo esempio schematico è come il paese A abbia spostato i propri traffici da un produttore efficiente (B) ad un produttore relativamente inefficiente (C). In un ottica di ricchezza e benessere sarebbe, a questo proposito, stato meglio tagliare unilateralmente le tariffe ed importare il prodotto da B.

Ciò evidenzia come, dal punto di vista del benessere, l’unione doganale produca benefici inferiori rispetto al libero scambio. Il costo aggiuntivo delle importazioni QsQd dal produttore ad alto costo del paese C è dato dal rettangolo BGHD. Così, dal punto di vista del paese A, la convenienza netta, in termini di benessere, a formare un’unione doganale con il paese C è data da ABC+DEF-BGHD. Tale convenienza può essere negativa o positiva a seconda dell’elasticità della domanda e dell’offerta e del livello delle barriere tariffarie.

Come già evidenziato, l’aumento dimensionale del mercato per effetto dell’unione doganale comporta nel medio-lungo periodo maggiori economie di scala e lo stimolo degli investimenti locali e stranieri. A ciò si aggiunga che l’aumento di competizione generato dalla nuova situazione rende le imprese più inclini al raggiungimento di una maggiore efficienza.

Si dovrebbe registrare infine un superiore trasferimento tecnologico tra i paesi componenti.

Negli obiettivi economici di lungo periodo rientrava, dunque, quello di incrementare gli scambi commerciali tra i paesi membri in considerazione anche del fatto che essi rappresentavano, fino ad allora, una piccola quota sul totale dei traffici.

Nonostante tali intenti si è giunti all’implementazione progressiva di una zona di libero scambio (AFTA) solo a partire dal 1993, a 25 anni quindi dalla fondazione dell’associazione.

Le ragioni di tale ritardo sono molteplici. Fra di esse la più importante è stata l’opposizione di alcuni paesi, in particolare l’Indonesia, timorosi di non essere in grado di reggere la concorrenza dei paesi membri più avanzati ed efficienti.

 

2.2 Evoluzione dell’associazione

L’evoluzione che ha subito l’associazione, negli oltre trent’anni della sua esistenza, è complessa e ne ha dimostrato il dinamismo e la volontà di adattarsi al trascorrere del tempo ed al mutare delle condizioni.

Il filo conduttore che nei prossimi sottoparagrafi sarà alla base dell’analisi di tale evoluzione non seguirà una suddivisione temporale uniforme. Il criterio logico posto alla base della divisione in tappe di tale percorso evolutivo è dato, infatti, dal compiersi dei summit tra i capi di stato e di governo dei paesi membri.

Tale supremo organo e massima espressione di volontà dell’associazione, pur non avendo avuto luogo ad intervalli regolari se non a partire dagli anni ’90, è quello che ha maggiormente inciso nei cambiamenti di rotta dell’ASEAN durante il corso della sua poco più che trentennale esistenza.

 

2.2.1 1967-1975: dalle difficoltà politiche iniziali ai primi passi verso la cooperazione

Nel 1968 l’ASEAN affrontò la prima difficoltà a causa di ciò che oggi è chiamato "affare Corregidor".

In quell’anno il governo malese accusò la controparte filippina di addestrare un gruppo di combattenti mussulmani nell’isola di Corregidor, nel tentativo di infiltrarli a scopo sovversivo nello stato di Saba, da poco unitosi con la neonata Federazione della Malaysia.

A sostegno di questa linea politica il congresso filippino approvò, nel settembre del 1968, una risoluzione che reiterava le proprie rivendicazioni su quel territorio prevedendo la sua inclusione nei propri confini. I diplomatici filippini, inoltre, ricevettero istruzioni secondo le quali avrebbero dovuto questionare e delegittimare la Malaysia, nell’ambito di varie conferenze internazionali, del diritto di rappresentanza che essa assumeva nei riguardi di Saba.

Le relazioni diplomatiche tra i due paesi toccarono il fondo allorché, nel novembre 1968, furono ritirate le delegazioni diplomatiche dalle rispettive capitali.

Solo con il passare del tempo, e grazie anche agli sforzi diplomatici degli altri paesi ASEAN, la situazione si normalizzò. Le relazioni furono riprese già a partire dal 1969 ma fu solo nel 1976 che il presidente filippino Marcos annunciò che il proprio paese non avrebbe più continuato a reclamare Saba.

Fino ad allora tale questione avrebbe in qualche modo continuato a farsi sentire ed a minacciare l’unità regionale.

Nello stesso periodo, un’altra questione minò la solidità e la sopravvivenza dell’associazione.

Nell’ottobre del 1968 il governo di Singapore decretò l’impiccagione di due marine indonesiani rei di omicidio.

In qualità di sabotatori, essi si erano infiltrati in Singapore durante la politica di Konfrontasi indonesiana ed avevano sistemato due ordigni esplosivi nel centro della città. L’esplosione causò un consistente numero di morti e feriti. Le dimostrazioni pubbliche tenutesi a Giacarta e le preghiere del governo indonesiano non riuscirono a fermare l’esecuzione dei colpevoli. Quando la sentenza di morte fu eseguita ed i corpi delle vittime furono riportati in madrepatria l’opinione pubblica indonesiana ebbe una reazione molto contrariata.

Fortunatamente il governo di Giacarta non permise che questo incidente deteriorasse o minacciasse la nuova entità regionale. Nel giro di pochi mesi le relazioni diplomatiche tra i due paesi ritornarono alla normalità e lo spiacevole incidente fu relegato nelle pagine da dimenticare della storia di questa regione.

Una volta che le tensioni politiche iniziali andarono scemando i cinque paesi dell’associazione poterono rivolgere la propria attenzione alla cooperazione regionale con maggiore vigore.

A ben vedere, nonostante il rinnovato spirito, i progressi registratisi in tale campo furono molto lenti nei primi nove anni di esistenza. Delle molteplici proposte e progetti portati avanti tra il 1967 ed il 1975, solo pochi di essi furono effettivamente implementati.

Scarni progressi furono fatti, ad esempio, per ciò che riguarda l’espansione degli scambi commerciali interni o per la promozione della cooperazione nel settore industriale. A questo proposito il commercio intra-ASEAN, come percentuale del commercio totale ASEAN, scese dal 15,5% al 12,6% durante il periodo 1970-1975; gli scambi intra-ASEAN restavano, dunque, insignificanti rispetto al commercio totale esterno di ciascuna delle cinque nazioni componenti (MIN WANG TING 1980).

Quanto alla cooperazione industriale, essa non avrebbe preso forma prima del summit di Bali del 1976.

A livello organizzativo furono introdotti vari comitati nel settore della produzione alimentare, del trasporto aereo civile, delle spedizioni internazionali, della meteorologia e, più in generale, del commercio e dell’industria. Fu, altresì, introdotto un permesso di soggiorno di sette giorni senza obbligo di visto ai cittadini dei paesi membri.

Sebbene la cooperazione interna stentasse a prendere il volo, quella riguardante il coordinamento delle proprie posizioni contrattuali nei confronti dei paesi esterni alla regione riscontrò maggiore successo.

In particolare le cinque nazioni si accordarono di negoziare in modo collettivo con le potenze industriali così da avvantaggiarsi economicamente dell’accresciuto potere contrattuale.

Nel 1972, ad esempio, l’ASEAN formò un Comitato Speciale di Coordinamento delle Nazioni ASEAN (SCCAN) per formulare in questo campo regole negoziali coordinate e per intraprendere negoziazioni comuni con la CEE (HOON KHAW GUAT 1992).

A questo fine fu peraltro istituito un Comitato ASEAN a Bruxelles, dipendente direttamente dallo SCCAN, per gestire in maniera più diretta e continua tali rapporti.

Nel 1973 i paesi dell’associazione decisero, inoltre, di estendere il coordinamento delle proprie azioni e posizioni nell’ambito delle negoziazioni commerciali multilaterali e non discriminatorie, in sintonia con i dettami del GATT, e diedero vita a Ginevra al secondo Comitato ASEAN.

Il raggruppamento diede ulteriori segnali di concertazione nell’attività di dialogo intrapresa con alcuni partner esterni.

Un approccio comune e coordinato fu fatto sia con il Giappone su di una questione inerente la produzione di gomma sintetica e sia con l’Australia per l’ottenimento di un piano di assistenza economica (LEIFER 1975).

Come già evidenziato, la Dichiarazione di Bangkok escluse esplicitamente la cooperazione politica dagli obiettivi dell’ASEAN.

Fu soltanto a seguito del primo summit, tenutosi nel 1976 a Bali, che la cooperazione politica fu presa in considerazione dai cinque paesi membri in modo formale e continuo. Precedentemente una sorta di coordinamento politico sussisteva a livello informale in occasione dei vertici ministeriali (AMM) previsti dalla struttura organizzativa. L’esempio più emblematico di tale concertazione fu la sottoscrizione da parte dei ministeri degli esteri, in un vertice organizzato ad hoc, della Dichiarazione di Kuala Lumpur del 1971 che diede vita alla Zona di Pace, Libertà e Neutralità nel Sud-Est Asiatico (ZOPFAN).

Lo ZOPFAN era la versione modificata di una proposta, avanzata precedentemente dalla Malaysia, di neutralizzazione politica del Sud-Est Asiatico.

In questa versione aggiornata le grandi potenze mondiali (USA, URSS, Cina) erano chiamate a riconoscere ed a rispettare tale zona. In altri termini esso era una dichiarazione esplicita diretta alle superpotenze affinché non interferissero nella costruzione di una pacifica convivenza regionale.

La proposta malese di neutralizzazione fu la logica risposta agli sviluppi internazionali che presero piede nella regione alla fine degli anni ’60. Tra di essi, i più rilevanti furono la decisione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti di ritirarsi rispettivamente dai possedimenti ad est del canale di Suez e dalla guerra del Vietnam.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto la cosiddetta "dottrina Nixon", resa nota nel 1969, prevedeva il ritiro dei contingenti americani da gran parte delle basi asiatiche.

Se da una parte la presenza, militare e non, degli occidentali si riduceva vistosamente, dall’altra l’interesse cinese e sovietico per questa regione non accennava a diminuire. Nello stesso periodo, ad esempio, l’Unione Sovietica suggeriva di creare in Asia un sistema di sicurezza comune.

Le preoccupazioni che l’area Sud-est asiatica divenisse per questi giganti comunisti un boccone appetibile si facevano così sempre più forti.

In questo contesto la proposta di neutralizzazione avanzata dal primo ministro malese Tun Abdul Razak cercava di porre un argine alle potenziali mire espansionistiche, con effetto distruttivo, proprie delle potenze ad economia pianificata.

L’effettuazione, nel 1972 e nel 1973, di due vertici ministeriali informali, vale a dire al di fuori dalla normale pianificazione organizzativa, per discutere sulla situazione nel Vietnam fu un altro esempio di come le nazioni ASEAN sentissero l’esigenza e l’importanza di politicizzare in modo istituzionale l’organizzazione. Ciò, come sottolineato, non accadde prima del summit di Bali del 1976.

 

2.2.2 1976: il summit di Bali

Nel 1975 Laos, Cambogia e Vietnam si proclamarono stati comunisti.

La vittoria di tale ideologia in questi tre stati indocinesi galvanizzarono i paesi membri dell’ASEAN e li spinsero a ricercare un’efficace azione di risposta.

Il primo ministro di Singapore Lee Kuan Yew, nella cerimonia di apertura del summit di Bali del 1976, ebbe a dire quanto segue: "Dall’aprile dello scorso anno, i paesi dell’ASEAN devono far fronte alla concorrenza dei sistemi socialisti-marxisti del Vietnam, del Laos e della Cambogia".

Stava crescendo l’idea, e con essa il consenso, secondo cui l’ASEAN avrebbe dovuto curare progettualmente ed in modo sistematico un’immagine di se come di un raggruppamento regionale operativo ed efficiente.

A questo fine era, però, necessario ottenere, a differenza del passato, risultati più significativi. Solo essi avrebbero decretato il successo e la serietà dell’organizzazione, differenziandola dalle precedenti esperienze fallimentari, ed avrebbero permesso di reggere il confronto, anche in termini di capacità di attrazione, con l’antagonista raggruppamento comunista.

Il summit di Bali del febbraio 1976 riflesse questa nuova determinazione; si cercò di rafforzare la solidarietà entro l’associazione e di mostrare agli occhi del mondo che essa era impegnata a fondo nel portare avanti la cooperazione regionale.

A Bali furono, inoltre, riaffermati ancora una volta gli obiettivi e le intenzioni contenute nella Dichiarazione di Bangkok ed evidenziate in dettaglio le aree in cui si sarebbero maggiormente concentrati gli sforzi cooperativi.

Di particolare significato fu, come accennato, l’adozione formale ed istituzionale della cooperazione politica quale nuovo strumento ed obiettivo dell’associazione.

A questo proposito, dal summit emersero tre importanti documenti: il Trattato di Amicizia e Cooperazione nel Sud-Est Asiatico, la Dichiarazione di Concordia ASEAN e l’accordo per l’istituzione del Segretariato ASEAN.

L’art.9 del Trattato di Amicizia e Cooperazione recita quanto segue: "Le solenni parti contraenti si sforzeranno nell’incoraggiare la cooperazione volta al perseguimento delle cause di pace, armonia e stabilità nella regione. A questo fine, le solenni parti contraenti manterranno tra loro regolari contatti e consultazioni sulle questioni internazionali e regionali per coordinare le proprie vedute, azioni e politiche" (HOON KHAW GUAT 1992).

Il capitolo VI del Trattato prevede, inoltre, specifiche norme di comportamento da adottare nel regolamento di eventuali dispute.

Le parti contraenti si impegnavano a non ricorrere alle minacce o all’uso della forza per regolare le controversie e si affidavano al meccanismo fornito dal trattato.

Il trattato, in sostanza, era una sorta di codice di condotta internazionale, in linea con la Carta delle Nazioni Unite, volto a mantenere relazioni pacifiche tra i signatari.

La Dichiarazione di Concordia ASEAN stipulava il programma d’azione ed i principi guida a cui l’associazione doveva fare riferimento nella ricerca della cooperazione regionale nel settore sociale, culturale, economico e politico. Fra l’altro, fu stabilito che fosse data la massima considerazione ai passi iniziali compiuti verso il riconoscimento ed il rispetto della zona di pace, libertà e neutralità; si auspicava, altresì, che ai fini del rafforzamento della cooperazione economica il meccanismo d’azione dell’ASEAN fosse migliorato e che la solidarietà politica tra i paesi membri fosse consolidata "promuovendo l’armonizzazione di vedute, coordinando le posizioni e, quando possibile e desiderabile, svolgendo azioni comuni".

Nella sfera economica alcuni progressi furono fatti attraverso lo sviluppo di accordi commerciali preferenziali (PTA) e di progetti industriali congiunti. Essi saranno oggetto di breve esamina nel terzo capitolo.

Altre aree di cooperazione investirono il campo sociale e culturale.

Per ciò che concerne le relazioni esterne furono potenziate le azioni comuni nella gestione dei rapporti sia con gli altri raggruppamenti regionali e sia con le singole potenze economiche.

Infine si colmò una profonda lacuna organizzativa con l’istituzione di un Segretariato ASEAN a Giacarta che, sebbene non godesse di poteri propri eccessivamente rilevanti, contribuì a fornire un fondamentale servizio centralizzato a supporto dell’operato dell’associazione.

 

2.2.3 1977-1987: dal summit di Kuala Lumpur alla questione cambogiana

Per festeggiare il compimento del decimo anno di attività dell’organizzazione i leader dell’ASEAN decisero di riunirsi in summit appena un anno e mezzo dopo quello tenutosi a Bali.

Questo incontro, ad onor del vero, non apportò gran ché di nuovo all’associazione e come è stato giustamente osservato "il comunicato finale del secondo summit era lungo in quanto a parole ma corto nella sostanza. Non fu fatto nessun passo avanti nello sviluppo regionale globalmente inteso o nella neutralità della zona. Persino nella cooperazione economica i capi di governo si limitarono a richiamare l’attenzione sui risultati già raggiunti … . I riferimenti alla cooperazione nel campo sociale e culturale erano alquanto nebulosi" (FIFIELD 1979).

L’unica innovazione di rilievo fu l’istituzionalizzazione del vertice dei ministri economici ASEAN (AEM).

Dopo il summit di Kuala Lumpur si susseguirono un grande numero di eventi di varia natura aventi un impatto significativo sull’associazione.

Alcuni di essi accentuarono le preoccupazioni inerenti la pace e la stabilità nella regione ed impedirono in un certo qual modo il progresso economico dell’ASEAN.

Fu alla luce di questi evenimenti che l’associazione consolidò la convinzione della necessità di un’ulteriore revisione delle fondamenta economiche della cooperazione e del proprio meccanismo di azione.

La questione cambogiana, la fase sfavorevole del ciclo economico e la sostituzione tecnologica di vari beni tradizionali furono alcuni dei fenomeni alla base di tale determinazione (LUHULIMA 1992).

L’ASEAN, a partire dal 1977, cercherà di sviluppare dei legami stretti e permanenti con le grandi potenze economiche mondiali. Questo processo ebbe inizio con il Giappone, da sempre partner commerciale di primo rango.

In effetti, già all’indomani del vertice di Kuala Lumpur, fu organizzata una prima conferenza congiunta tra l’ASEAN ed il Giappone, rappresentato allora dal primo ministro Fukuda Takeo (agosto 1977).

Ma il paese nipponico non fu l’unico ad essere interessato da questa rinnovata predisposizione al dialogo internazionale. Nell’aprile 1977 vi era già stata una conferenza a Bruxelles tra industriali, uomini d’affari e funzionari della CEE e dell’ASEAN. A partire dallo stesso anno furono portate avanti a Bruxelles delle negoziazioni permanenti tra le rispettive rappresentative diplomatiche.

Sempre su questa linea si inquadravano la riunione al vertice, tenutasi a Manila nel settembre 1977, tra l’ASEAN e gli Stati Uniti e l’incontro, a livello ministeriale, svoltosi a Washington nell’agosto del 1978.

Questi rapporti pseudoistituzionali che si svilupparono con i principali esponenti occidentali o filo-occidentali, a seguito del secondo vertice ASEAN, avevano natura principalmente economica, commerciale, finanziaria e tecnologica.

Alla luce dell’assenza di simmetriche relazioni con gli stati socialisti, tali rapporti sembravano significare un’ulteriore manifestazione, a pochi anni dalla volontà di neutralizzazione proclamata a Kuala Lumpur (1971), dell’atteggiamento anticomunista dei paesi membri.

La crisi indocinese, come detto, aveva contribuito a fornire all’organizzazione una dimensione politica che la dichiarazione di Bangkok del 1967 non prevedeva.

Questa tendenza fu ulteriormente amplificata nel dicembre 1978 in occasione dell’aggravarsi della situazione indocinese per effetto dell’occupazione vietnamita in Cambogia, avvenuta circa sei mesi prima. Essa suscitò la dura reazione della Cina, che sospese i suoi aiuti economici al Vietnam, delle Nazioni Unite e delle stesse nazioni ASEAN.

La cooperazione diplomatica e politica assunse in quegli anni livelli elevati e l’inclinazione a rinforzare la coesione, finanche militare, si faceva sempre più evidente.

Il 13 gennaio 1979, in seguito a consultazione diplomatica, gli stati dell’ASEAN dichiararono il proprio rifiuto a riconoscere la nuova "Repubblica Popolare della Kampuchea" proclamata, pochi giorni prima, con l’appoggio del Vietnam e pretesero il ritiro completo ed incondizionato delle truppe vietnamite.

Più tardi, in occasione di un’assemblea generale dell’ONU, l’ASEAN riuscì a far riconoscere la "Kampuchea democratica" come la sola rappresentante legale della Cambogia.

La ragione di questa insolita e controversa posizione risiedeva nel fatto che occorreva controbilanciare le forze vietnamite in Indocina anche a costo di appoggiare il regime comunista decaduto dei Khmer rossi.

Tale politica, però, non poteva considerarsi sostenibile nel lungo periodo e per tale ragione la diplomazia dell’organizzazione si impegnava segretamente nel favorire la costituzione di un governo unitario di resistenza antivietnamita.

Nel giugno 1981, i paesi dell’associazione nelle persone dei ministri degli esteri elaborarono un primo piano di risoluzione della questione prevedendo la creazione di una forza di pace ONU in Cambogia, il ritiro delle truppe straniere e la messa in atto di un’amministrazione transitoria incaricata di organizzare nuove elezioni sotto il controllo delle Nazioni Unite.

Fu questo il piano che l’ASEAN fece adottare alla conferenza sulla Cambogia organizzata a New York, sotto l’egida dell’ONU, nel luglio 1981.

Allo stesso tempo, l’ASEAN proseguì i suoi sforzi per costituire un governo di coalizione delle fazioni antivietnamite che, meglio dei Khmer rossi, potesse rappresentare la Cambogia presso l’ONU.

A questo riguardo, essa organizzò un primo incontro a Singapore nel settembre 1981, ed un secondo a Kuala Lumpur nel giugno 1982. Quest’ultimo produsse una dichiarazione solenne per la quale il principe Sihanouk, i Khmer rossi ed i nazionalisti di destra si accordarono per costituire un "governo di coalizione del Kampuchea democratico".

Nonostante la presenza simultanea di orientamenti divergenti di paesi come l’Indonesia, fortemente anticinese, e la Thailandia, molto vicina a Pechino, l’ASEAN era riuscita ad assumere una posizione comune ed a giocare, per la prima volta, un ruolo abbastanza attivo nella risoluzione positiva di questa crisi (JOYAUX 1997).

In questo stesso periodo, la cooperazione militare tra gli stati membri cominciò a svilupparsi, dando luogo, ad esempio, a delle esercitazioni navali tra la Malaysia e la Thailandia a partire dal 1983, la Malaysia e Singapore dal 1984 e così via. Sebbene tali esercitazioni non trasformarono l’associazione in un’alleanza militare, esse ne aumentarono, in qualche modo, il peso strategico e politico a livello regionale ed internazionale.

L’8 gennaio 1984 il Brunei aderì all’associazione portandone a sei i paesi membri.

 

2.2.4 1987-1992: il summit di Manila

Lo scenario politico internazionale della fine degli anni ‘80 si presentava, a quarant’anni dall’inizio della guerra fredda, alquanto nuovo e carico di quesiti (HSIUNG 1993).

La proclamazione dei principi di glasnost e perestrojka, annunciati da Gorbaciov nel luglio 1986 in un discorso tenutosi a Vladivostok, segnava la distensione definitiva tra le superpotenze ed il termine della contrapposizione Est-Ovest.

Questo fondamentale cambiamento non poteva non essere preso in considerazione dall’ASEAN e non comportare la revisione del quadro della cooperazione politica fino ad allora intrapresa.

Parimenti i profondi cambiamenti dello scenario economico internazionale si tradussero in significativi cambiamenti delle economie ASEAN.

Esse si erano espanse notevolmente dal tempo del primo summit di Bali. La struttura dei rispettivi prodotti nazionali, seguendo la "fisiologica" tendenza di tutti i paesi in via di sviluppo, si era allontanata dal puro "agrocentrismo" per indirizzarsi verso l’affermazione del settore industriale e, in misura minore, verso lo sviluppo del terziario.

Questo cammino, in verità, non fu intrapreso da tutti i paesi membri con la stessa intensità. Singapore e Filippine si posero al vertice di questo processo di trasformazione mentre l’Indonesia occupò, ancora una volta, il gradino più basso.

Sulla scia del successo dei paesi a nuova industrializzazione si assistette, inoltre, ad una maggiore apertura esterna della politica economica (si abbandonava la fallimentare politica dell’import-substitution) e all’orientamento di queste economie verso la produzione di beni diretti all’esportazione che, se da una parte favorirono gli investimenti esteri e l’industrializzazione in questi paesi, dall’altra incrementarono la dipendenza dai mercati esterni (POMFRET 1992).

Il tasso di crescita annuale delle esportazioni ASEAN superò, a partire dalla fine degli anni ’80, quello medio mondiale.

I paesi sviluppati, dal canto loro, timorosi della propria debolezza relativa in termini di crescita economica, ricorsero nuovamente a politiche protezionistiche mettendo, così, in pericolo le sopracitate dipendenti economie dell’ASEAN e degli altri paesi in via di sviluppo (LUHULIMA 1992).

Nelle immediate vicinanze della regione si presentavano ulteriori cambiamenti degni di attenzione. I quattro programmi di modernizzazione posti in essere dalla Cina, il formidabile successo dei cosiddetti paesi di nuova industrializzazione nell’Est Asiatico (Hong Kong, Corea, Singapore, Taiwan), il nuovo ruolo del Giappone quale maggiore fornitore di capitali ed infine il crescente interesse dell’Unione Sovietica verso la regione Asia-Pacifico, dettato dalla consapevolezza del futuro ruolo strategico dell’area, contribuirono al cambiamento della cooperazione fino ad allora configurata.

Ciò considerato non appare strano che, in occasione del terzo summit ASEAN tenutosi a Manila nel 1987, il primo ministro di Singapore Lee enfatizzasse la necessità di ricercare ancora una volta dei nuovi cammini di crescita in risposta ai cambiamenti del sistema internazionale.

In quegli anni le fluttuazioni dei tassi di cambio e, in virtù dell’apprezzamento delle principali monete, il conseguente aggravamento della posizione debitoria, il calo senza precedenti del prezzo di alcuni beni da esportazione ed i relativi squilibri delle bilance commerciali e dei pagamenti, il crescente protezionismo occidentale e ragguardevoli problemi in termini di debito internazionale determinarono un alto numero di aggiustamenti nelle economie ASEAN ed imposero una revisione dei meccanismi della cooperazione e, più in generale, la formulazione di un nuovo piano d’azione regionale nel campo economico, sociale, e politico.

Fu per le ragioni sopra accennate che, ad esempio, l’ASEAN dovette migliorare lo sfruttamento delle risorse regionali ed incrementare il proprio grado di indipendenza e la propria quota di mercato attraverso l’implementazione di progetti di cooperazione nel settore industriale.

Allo stesso tempo si rendeva necessario, a sostegno dell’efficacia della cooperazione politica ed economica, far pervadere ai più svariati livelli del tessuto sociale e delle classi governanti dei paesi membri il senso d’identità e di appartenenza ad una medesima comunità.

A livello organizzativo si introdussero il vertice ministeriale congiunto (JMM) tra i ministri economici dei paesi ASEAN (AEM) e quelli responsabili degli affari esteri (AMM), ed ancora, l’incontro tra alti funzionari economici (SEOM) e quello tra alti funzionari dei ministeri degli esteri (SOM). Fu, inoltre, previsto il vertice consultivo congiunto (JCM) tra queste ultime categorie di funzionari.

Nel campo economico il summit riuscì ad introdurre obiettivi quantitativi, stipulando misure di liberalizzazione dei mercati che saranno brevemente descritti nel terzo capitolo.

La cooperazione sociale, culturale, scientifica e tecnologica furono riunite in un’unica categoria detta cooperazione funzionale; l’obiettivo sostanziale di questa modifica era quello di far crescere la consapevolezza dell’associazione, la diffusione tra la gente degli ideali ASEAN e lo sviluppo delle risorse umane in termini regionali.

Nel campo della cooperazione politica lo ZOPFAN e il Trattato di Amicizia e Cooperazione furono ulteriormente proiettati nel futuro. Quest’ultimo fu emendato per mezzo di un protocollo sottoscritto in occasione dello stesso summit di Manila al fine di permettere l’adesione al trattato da parte dei paesi esterni all’associazione.

In ambito internazionale il ruolo dell’ASEAN svolto nella ricerca di una soluzione alla crisi cambogiana restò importante durante la fase finale delle negoziazioni.

Nel luglio 1988, l’Indonesia organizzò a Giacarta una prima riunione informale tra le fazioni Khmer, il Vietnam ed i paesi dell’associazione, poi una seconda nel febbraio 1989.

Nel luglio-agosto 1989, l’Indonesia copresiedeva, assieme alla Francia, la Conferenza internazionale di Parigi sulla Cambogia ed in seguito essa organizzò a Giacarta una terza riunione informale nel febbraio 1990, poi una nuova conferenza inter-cambogiana nel settembre 1990 ed infine, nel giugno 1991, le prime riunioni del Consiglio nazionale supremo cambogiano, incaricato dell’esercizio temporaneo della sovranità nel paese.

Allorché, nell’ottobre 1991, la Conferenza di Parigi si riunì per la seconda volta, essa fu di nuovo sotto la copresidenza dell’Indonesia. Da essa scaturirono gli accordi di pace per la Cambogia.

Fino alla fine, dunque, l’ASEAN rivestì un ruolo attivo ed importante nella risoluzione della questione. L’associazione aveva confermato, nel corso di queste negoziazioni, una certa coesione diplomatica e si era data altresì un’immagine di gruppo regionale responsabile e moderato.

 

2.2.5 1992-1995: il summit di Singapore e la nascita dell’AFTA

La tendenza dell’ASEAN, manifestatasi specialmente negli anni ‘80, ad evolversi in un sistema di sicurezza proseguì e paradossalmente si rinforzò anche dopo lo sgretolamento dell’URSS ed il termine della guerra fredda. Il contesto regionale ed internazionale, in effetti, continuavano a favorire le iniziative dell’associazione in questo senso.

La riduzione della presenza sovietica nel Vietnam, iniziata sin dall’implosione dell’URSS, non accennava a fermarsi anche dopo il 1991.

Allo stesso tempo, il disimpegno militare americano, cominciato già da molti anni, continuava a manifestarsi e trovava il suo apice in occasione del ritiro delle forze presenti nelle Filippine. Il ruolo stabilizzatore giocato dagli Stati Uniti nella regione non era più attivo e diretto.

Tutto ciò inquietava i vertici politici dei paesi ASEAN, preoccupati com’erano di evitare il formarsi di un vuoto strategico; una rottura di un equilibrio consolidato tanto più destabilizzante quanto più si prendeva in considerazione le vicine potenze militari ed economiche della Cina e, sia pur in misura minore, dell’India e del Giappone.

L’aumento regolare della voce di spesa relativa agli armamenti del bilancio cinese poneva in allerta i governi sudorientali e ne amplificava i timori.

A ciò si aggiunga che due ulteriori questioni regionali perturbavano seriamente lo scenario internazionale nella zona: il conflitto cambogiano che, nonostante l’accordo del 1991, non era a tutti gli effetti risolto e le rivendicazioni insulari cinesi nella regione (Taiwan) che rischiavano in ogni momento di degenerare.

Consapevoli delle difficoltà che lo scacchiere regionale presentava si tenne a Manila, nel giugno 1992, una riunione speciale dei responsabili diplomatici e militari di alto livello dell’ASEAN. Essa diede il la alla preparazione di una conferenza regionale in materia di sicurezza.

Più tardi, nel luglio 1993, il vertice ministeriale dell’associazione decretò la nascita del Forum Regionale ASEAN (ARF), un organismo consacrato alle questioni di sicurezza.

Attualmente oltre ai nove paesi membri (la Cambogia conserva uno status di paese osservatore) esso include dieci paesi partner di dialogo.

I suoi obiettivi sono i seguenti:

Il Forum si riunisce a cadenza annuale a partire dal 1994 (Bangkok).

La dimensione politica dell’ASEAN, in questo caso riguardante la sola sfera della sicurezza, era affermata ancora una volta.

L’interesse crescente dell’associazione per le questioni di sicurezza si tradusse più tardi, in occasione del summit di Bangkok del 1995, nella firma del trattato di denuclearizzazione del Sud-Est Asiatico.

La sottoscrizione di un simile accordo, in verità, era sempre stato un obiettivo dei paesi membri dell’associazione ed il ritiro degli americani dalle Filippine non fece altro che favorirne il concepimento.

Esso manifestava, in sintonia con la Carta delle Nazioni Unite ed il Trattato di non Proliferazione degli Armamenti Nucleari, l’avversione dei paesi ASEAN alla produzione, acquisizione, uso e persino trasporto di armi nucleari. Impediva, altresì, il rilascio di sostanze radioattive nell’ambiente. Era fatta salva la possibilità di utilizzo di materiale radioattivo per usi esclusivamente pacifici (settore energetico).

A livello economico i paesi dell’ASEAN avevano fatto un notevole passo in avanti e lo sviluppo compiuto negli anni ’80 e nei primi anni ’90 erano evidenti (Tabella 2.2).

Sempre sul piano economico, l’ASEAN maturava finalmente l’idea di dar vita, sia pur in modo progressivo, ad una zona di libero scambio.

 

Tabella 2.2 Struttura economica nel 1980 e nel 1993(valori percentuali)

Paese

Agricoltura

Industria

Terziario

1980

1993

1980

1993

1980

1993

Brunei

1

1

81

48

18

51

Filippine

25

23

39

34

36

43

Indonesia

31

18

31

42

38

40

Malaysia

23

16

36

44

41

40

Singapore

1

0

32

37

67

63

Thailandia

25

12

30

41

45

27

Vietnam

43

29

26

28

31

42

ASEAN

18

14

41

39

41

44

 

Fonte: World Bank

 

Tale propensione era presente già dagli anni ‘70 e per questo stupisce rilevare come, soprattutto a causa dei miopi interessi protezionistici di alcuni paesi, la sua applicazione sia stata ritardata di oltre vent’anni. Il rinnovato spirito di liberalizzazione commerciale era spinto e giustificato dal contesto internazionale.

Il rafforzamento dell’integrazione europea, testimoniato dal passaggio da Comunità economica ad Unione, il progetto d’accordo di libero scambio nord americano (NAFTA) tra Stati Uniti, Canada e Messico (destinato ad estendersi ad altri paesi latino americani) ed il progetto di cooperazione economica nell’Asia-Pacifico (APEC) contribuirono in maniera decisiva ad una scelta in tale direzione.

Tali aggregazioni regionali rappresentavano la quasi totalità dei mercati di riferimento dei paesi ASEAN e, di conseguenza, non si poteva restare immobili di fronte alla loro evoluzione.

Questo è anche il tempo in cui le negoziazioni, in seno al GATT, del cosiddetto "ciclo dell’Uruguay" entravano nella loro fase finale e decretavano, fra l’altro, la sua trasformazione nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).

Non meno rilevante fu la crisi economica dei primi anni ‘90 che spinse i sei paesi dell’ASEAN a cambiare rotta al fine di sviluppare il commercio interno ed esterno (JOYAUX 1997).

Il livello degli scambi tra i paesi ASEAN, a questo proposito, si attestava su modesti valori (circa il 10% sul totale degli scambi) e non aveva mai dato segni di decollo.

Fu come risposta a queste variabili, ed ad altri fattori più profondi che saranno esaminati nei prossimi capitoli, che l’ASEAN stabilì la creazione progressiva di una zona di libero scambio (AFTA). La decisione fu presa in occasione del quarto vertice dei capi di governo dei paesi membri, tenutosi a Singapore nel gennaio 1992.

Fu stabilito un meccanismo di riduzione progressiva (CEPT), a partire dal 1º gennaio 1993, di molteplici tariffe doganali al fine di pervenire, in un lasso di tempo di 15 anni, vale a dire entro il 2008, ad un livello massimo del 5%. Tale scadenza è stato più volte accorciata ed ultimamente, come risposta alla recente crisi, é stata portata al 2002; una proroga è stata concessa ai paesi nuovi aderenti.

Proposto dalla Thailandia, il progetto AFTA non mancò di riscontrare delle forti opposizioni, in particolare dall’Indonesia, che riuscì, grazie anche all’importante peso rivestito all’interno del raggruppamento, ad ottenere un così lungo ritardo di attuazione.

La Malaysia, da parte sua, completamente favorevole a questo progetto, difese l’idea di un raggruppamento economico dell'est asiatico più vasto, comprendente anche Cina e Giappone. Il dibattito in seno all’ASEAN fu, in relazione a questa proposta, piuttosto difficile e privo di risultati concreti.

Nel luglio 1992 la conferenza ministeriale dell’associazione, riunitasi a Manila, moderò le proposte ottimiste avanzate in occasione del summit di Singapore.

Più tardi, nell’ottobre 1992, i ministri economici dei sei paesi decisero di operare una riduzione del 20% dei diritti doganali lungo un arco temporale di sette/dieci anni soltanto, però, sulla metà dei prodotti scambiati tra i paesi membri. È questa, in effetti, la modesta riduzione che cominciò ad essere praticata in teoria a partire dal 1º gennaio 1993, ma in pratica a partire dal 1994.

Alla falsa partenza del progetto si aggiunse il problema creato dal concomitante rilancio dell’APEC nel 1993 (summit di Seattle) e della relativa decisione, presa nel novembre 1994 in occasione del summit di Bogor (Indonesia), di creare una zona di libero scambio dell’Asia e del Pacifico entro il 2020. Tale decisione si rivelava, in qualche modo, conflittuale e complementare a quella dell’associazione.

Il summit di Singapore siglò altri due importanti documenti: l’Accordo Strutturale per il rilancio della cooperazione economica ASEAN e la Dichiarazione di Singapore.

Tali documenti, insieme ad altri successivi (Visione 2020 ASEAN), predispongono tuttora i principi e la strada che l’ASEAN deve compiere in materia di sicurezza e di cooperazione politica, economica e funzionale.

Essi enfatizzano come l’AFTA sia solo uno, sia pur fondamentale, dei nuovi tasselli predisposti in un mosaico strategico più vasto.

A livello economico tali documenti prevedevano il rafforzarsi della cooperazione, o l’estendersi nei casi in cui non fosse stata già prevista, nel campo industriale, minerario, energetico, finanziario, bancario, alimentare, agricolo, forestale, dei trasporti e delle comunicazioni, degli accordi subregionali (triangoli di crescita), delle partecipazioni del settore privato e delle relazioni esterne con i singoli paesi, gli altri raggruppamenti o le organizzazioni internazionali. Le misure in essi contenute saranno esaminate nel terzo capitolo.

La Dichiarazione di Singapore, l’Accordo Strutturale e l’istituzione dell’AFTA segnavano una profonda svolta nel grado di interconnessione tra i paesi membri dell’associazione, decretando il passaggio da una fase di cooperazione piuttosto fallimentare (1967-1992) all’inizio di un vero e proprio processo di integrazione nella regione.

A livello organizzativo, il summit di Singapore istituì il Consiglio AFTA al fine di gestire, coordinare e revisionare l’implementazione dell’AFTA.

Un’ulteriore decisione, presa nel corso dello stesso vertice, fu quella di dare maggiore regolarità temporale ai summit ASEAN; la loro ricorrenza fu così cadenzata ad intervalli triennali.

Sempre sul piano organizzativo fu altresì deciso di aumentare i poteri del Segretariato ASEAN. In particolare fu potenziata la figura, fino ad allora rimasta nell’ombra, del Segretario Generale; la si rivestì dello status ministeriale e le si affidò il mandato di iniziativa, di consulenza, di coordinamento e di implementazione delle attività ASEAN.

Con tale decisione l’associazione si è finalmente dotata di un rappresentante più qualificato per suggerire delle scelte di indirizzo e più adatto ad agire in nome dell’organizzazione.

In questi anni furono create, tra alcune porzioni regionali, delle zone o triangoli di crescita.

Due fattori intimamente connessi, più di altri, contribuirono alla formazione ed allo sviluppo di tali aree: da una parte la politica di apertura economica (e di orientamento alle esportazioni) intrapresa già a partire dalla fine degli anni ‘80 sull’onda del successo che, grazie ad essa, avevano ottenuto i nuovi paesi industrializzati, e dall’altra i massicci investimenti che gli stessi NIE ed altri paesi sviluppati (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) riversavano su queste zone in cerca di manodopera e, più in generale, di fattori produttivi a basso costo.

Tale fenomeno era stato amplificato dalla parziale diversione degli investimenti, fino ad allora diretti verso la Cina, verificatasi per effetto dell’incertezza politica generata nel 1989 a seguito del soffocamento della protesta di Tienammen.

Con la creazione di tali triangoli i confini politici passavano in secondo ordine rispetto a quelli economici e dei forti legami produttivi sorsero tra entità subregionali.

Tale fenomeno, ad onor del vero, non apparse per la prima volta nel Sud-Est asiatico; esso era conosciuto da tempo nei paesi industrializzati ed aveva radici più antiche in altre regioni asiatiche più evolute (ad esempio tra la Corea ed il Giappone e tra Taiwan e la costa meridionale, Hong Kong inclusa, della Cina).

Dal 1991 era stato lanciato un "triangolo di crescita" tra Singapore, lo stato di Johore in Malaysia, e le isole Riau indonesiane (SIJORI). Un’altra zona, detta triangolo di crescita orientale od anche area di crescita ASEAN orientale (EGT o EAGA) sorse tra alcuni stati malesi, delle province indonesiane e filippine e lo stato del Brunei. Infine un triangolo settentrionale (NGT), detto anche triangolo di crescita Indonesia-Malaysia-Thailandia (IMT-GT), fu stabilito tra le province del sud della Thailandia, quattro stati del nord della Malaysia e due province dell’Indonesia (Sumatra del nord e Atcheh).

Queste iniziative subregionali dimostravano l’apertura e la volontà dell’associazione di accelerare il proprio sviluppo economico anche a livello decentralizzato e non istituzionale.

Un importante iniziativa dei primi anni ’90 è stata la decisione di incorporare progressivamente l’Indocina nell’associazione. Essa assumeva connotati alquanto rivoluzionari visto l’atteggiamento anticomunista adottato sin dalla sua fondazione.

L’ASEAN, a questo riguardo, era stato all’epoca profondamente criticato dal Vietnam del Nord, come dall’URSS e dalla Cina, perché vista essenzialmente come un’alleanza pro americana.

A conclusione della guerra fredda è stato grazie alla politica di apertura economica intrapresa da Hanoi e, in misura non minore, grazie alla soluzione parziale alla crisi cambogiana del 1991, che ha portato i sei paesi membri a riconsiderare la possibilità di adesione dell’Indocina.

Nel gennaio 1992 il Vietnam ed il Laos, in virtù della firma del Trattato di Amicizia e Cooperazione del 1976, entrarono a titolo di osservatori nell’associazione.

Due anni più tardi tali paesi furono invitati al Forum regionale sulla sicurezza tenutosi a Bangkok.

Allo stesso tempo i rapporti economici tra il Vietnam e l’ASEAN, in primo luogo Singapore, si erano moltiplicati.

Attirati dal mercato vietnamita e dalla ricostruzione dell’Indocina, l’ASEAN decise di accettare l’adesione del Vietnam. Questi, dal canto suo, avrebbe goduto di una maggiore apertura economica e di nuovi capitali esteri attratti da un’accresciuta sicurezza e stabilità.

La normalizzazione delle relazioni tra il Vietnam e gli Stati Uniti, annunciata a Washington nel luglio 1995, tolse l’ultimo ostacolo.

Il 28 luglio 1995, in occasione della conferenza ministeriale annuale dell’ASEAN tenutasi nel Brunei, il Vietnam ha aderito formalmente all’associazione divenendone il settimo membro.

L’adesione era subordinata all’accettazione di tutti gli accordi ed i trattati fino ad allora siglati. Per facilitarne l’integrazione all’AFTA fu convenuto, tuttavia, che esso beneficiasse di tre anni supplementari, quindi con scadenza posticipata al 2006.

Con l’accettazione del Vietnam nel 1995 e, due anni più tardi, con quella del Laos e della Birmania, l’ASEAN apriva per la prima volta le sue "frontiere" a paesi socialisti.

 

2.2.6 1995-1997: dal summit di Bangkok all’adesione della Birmania e del Laos

Il summit di Bangkok ebbe luogo nel Dicembre del 1995.

Ciò che sul piano politico caratterizzò maggiormente tale vertice fu, come accennato in precedenza, la firma del trattato di denuclearizzazione del Sud-Est Asiatico.

A livello economico fu deciso di:

Sempre in relazione all’AFTA fu deciso, attraverso un apposito protocollo che emendava l’Accordo CEPT, l’avvicinamento della scadenza ultima per l’applicazione delle riduzioni tariffarie nell’ambito dell’implementazione graduale dell’AFTA. Si passava, come già accennato, dagli originali 15 anni ai 10 anni, anticipando il termine ultimo al 2003 (ora 2002).

Questo protocollo prevedeva inoltre l’inclusione nel CEPT, prima non consentita, dei prodotti agricoli primari ed il rientro, entro il 2000, di tutti i prodotti esclusi temporaneamente dal meccanismo CEPT nella lista di inclusione.

In vista dell’entrata a far parte dell’ASEAN di altri paesi del Sud-Est Asiatico, fra cui quella da poco avvenuta del Vietnam, fu introdotta una clausola per permetterne l’accesso allo schema CEPT.

In quest'occasione si decise inoltre di far assorbire gradualmente dal CEPT i prodotti che godevano di riduzioni tariffarie su base preferenziale rientranti nel precedente fallimentare meccanismo di liberalizzazione commerciale (PTA); i motivi di quest'inefficacia saranno esposti nel terzo capitolo allorché si darà una panoramica delle esperienze cooperative poste in essere dall’ASEAN in questo trentennio di esistenza.

A livello organizzativo, ritenendo insufficiente il summit a cadenza triennale, i sette membri decisero di incontrarsi regolarmente in un vertice informale almeno una volta entro i suddetti canonici summit. Ciò avrebbe rinsaldato ed accresciuto i legami politici e la consultazione ai massimi vertici.

Fino a tutt’oggi si sono tenuti due vertici informali: il primo a Giacarta nel dicembre 1996 ed il secondo a Kuala Lumpur nel dicembre del 1997.

In occasione del primo summit informale i leader dell’ASEAN hanno chiesto ai ministri degli esteri di elaborare una previsione a lungo termine sugli sviluppi dell’associazione verso il 2020. Il risultato di quest'elaborazione è stato riassunto nel documento Visione 2020 ASEAN approvato in occasione del secondo summit informale, che offre in qualche modo le linee guida da seguire nel corso del processo di integrazione regionale.

A due anni dall’entrata del Vietnam quale settimo componente, Birmania e Laos hanno aderito, nel luglio del 1997, all’associazione portando il numero dei paesi membri a nove (ASEAN-9).

Mentre l’adesione del Laos era prevista da tempo quella della Birmania ha suscitato forte disappunto nell’opinione pubblica regionale ed internazionale per via dell’annosa questione della negazione dei diritti civili che attanaglia questo paese.

I leader dell’associazione, con leggero risentimento contro quella che sembrava ai loro occhi un’ingerenza esterna, hanno risposto a queste critiche adducendo come spiegazione l’opportunità che in questo modo l’associazione avrebbe avuto di intervenire in misura maggiore e con una forza più diretta nella risoluzione del problema dei diritti civili di questo paese.

In verità, assieme a quella del Myanmar e del Laos, era prevista l’inclusione della Cambogia. All’ultimo momento però, a causa di alcuni incidenti interni che avevano portato all’uso della forza in quel paese, i ministri degli esteri ASEAN decisero di rinviarne l’ammissione ad avvenuta normalizzazione politica.

A trent’anni della sua formazione l’ASEAN contava così nove dei dieci paesi della regione sudorientale.

La festa per la celebrazione del trentennio doveva, però, di lì a poco essere guastata dall'imminente crisi finanziaria che, iniziata un mese prima (luglio 1997), si sarebbe estesa a macchia d’olio nel continente asiatico.

 

2.2.7 1998: il summit di Hanoi e la crisi finanziaria

In occasione del sesto summit, tenutosi ad Hanoi nel dicembre 1998, la Cambogia è finalmente entrata a far parte dell’associazione portando a 10 i paesi membri (ASEAN-10) e completando il processo di integrazione dei paesi rientranti nel Sud-Est Asiatico.

L’inclusione dello stato cambogiano, in verità, non è stata così semplice per via delle forti remore manifestate soprattutto da alcuni paesi (Singapore) in relazione alla situazione politica instabile tuttora presente.

A sminuire l’importanza del completamento del quadro regionale è tuttavia intervenuta la grave crisi finanziaria ed economica che si è abbattuta nell’area asiatica a partire dalla metà del 1997.

I primi sentori di questa crisi si erano manifestati già alla fine del 1996 allorché i tassi di crescita di gran parte dei paesi asiatici avevano dato segno di un rallentamento.

Le cosiddette "tigri asiatiche" (Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan) ed i paesi ASEAN stimavano una diminuzione del tasso di crescita dal 7,9% del 1995 al 7,3% atteso nel 1996; sul versante delle esportazioni la crescita del 28% del 1995 era ridimensionata ad un valore atteso del 6,6% nell’anno successivo.

Le cause del calo di questi indici, di natura finanziaria ed economica, sono molteplici.

Dal punto di vista finanziario (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998):

  1. si assisteva ad un indebolimento sostenuto dello yen nei confronti del dollaro (circa il 10%) che ha reso più competitive le esportazioni giapponesi a danno delle bilance commerciali degli altri paesi asiatici. Un simile fenomeno si era verificato, con l’Italia protagonista, in occasione della svalutazione dei primi anni ’90.

  2. si registrava un rialzo dei tassi di interesse interni, dovuto all’ancoraggio al dollaro di gran parte delle valute asiatiche e alla deregulation di cui al punto 3, che rendeva più conveniente il finanziamento all’estero.

  3. in un ottica di liberalizzazione finanziaria si procedeva ad una certa deregulation del sistema bancario che, oltre ad abolire il tetto limite dei tassi d’interesse, prevedeva una certa apertura concorrenziale ad istituzioni non bancarie e la riduzione dei controlli sull’esposizione dei capitali.

  4. si manifestava una forte esposizione del sistema bancario per via di cospicue elargizioni di prestito in settori ormai saturi (settore immobiliare); questi prestiti, essendo a loro volta finanziati in dollari attraverso istituzioni finanziarie straniere (in maggioranza giapponesi), hanno incrementato il proprio peso in stretta correlazione con la rivalutazione della valuta americana.

Dal punto di vista economico (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998):

  1. si prospettava una certa maturità (di natura congiunturale e non strutturale) delle economie interessate in termini di crescita.

  2. si assisteva all’aumento del reddito pro-capite che, complice l’apprezzamento del cambio, incrementava la domanda interna di beni d’importazione.

  3. si registrava la costante crescita del costo della manodopera che, complice anche in questo caso l’apprezzamento del cambio, rendeva meno competitivi i beni d’esportazione; assieme al fenomeno di cui al punto 2, il calo delle esportazioni generava un saldo negativo della bilancia commerciale continuo nel tempo.

  4. si protraeva la sovrapproduzione, e quindi l’offerta, di alcuni beni (settore automobilistico, acciaieristico, dei semiconduttori), con conseguente stagnazione dell’economia.

  5. si manifestava l’inadeguatezza delle infrastrutture a fronte della crescita economica.

La concausa di questi fattori ha determinato la fragilità congiunturale, ed in parte strutturale, in cui molti paesi si sono trovati nel corso del 1997.

Tale debolezza ha poi portato al pettine i nodi economici che sino ad allora erano ben mascherati dalla crescita sostenuta registrata sin a partire dagli anni ’80.

I primi vagiti della crisi si sono sentiti in Thailandia, ove oltre al calo della crescita del P.I.L. e delle esportazioni, si registrava nel 1996 la chiusura della Borsa ai livelli minimi da tre anni a quella parte.

L’esposizione eccessiva delle banche thailandesi, soprattutto nel saturo mercato immobiliare, spingeva le varie agenzie di rating (Moody’s prima fra tutte) a declassare i titoli di debito da esse emessi. Tali titoli erano per gran parte emessi a fronte di prestiti ottenuti in valuta statunitense da banche estere.

Il dollaro, come è noto, non accennava a diminuire la sua ascesa a danno dello yen. L’aggravio che derivava da entrambi questi fenomeni era difficilmente sostenibile dal sistema creditizio thailandese.

Le cause che hanno portato alla crisi in Thailandia sono, dunque, sia di natura economica (fase congiunturale negativa) e sia di natura finanziaria (fragilità strutturale del sistema finanziario aggravata da un'eccessiva e troppo rapida liberalizzazione).

In relazione al primo aspetto si registrava il rallentamento della crescita, la diminuzione delle esportazioni per effetto della perdita di competitività generata dal deprezzamento dello yen, il continuo incremento del debito estero dovuto al finanziamento del disavanzo strutturale della bilancia dei pagamenti ed infine la crisi del settore immobiliare che, essendo ormai saturo, tendeva al ribasso dei prezzi incidendo negativamente sulle scelte di investimento degli operatori.

Quanto alla fragilità del sistema finanziario, essa era dovuta ad un processo di liberalizzazione poco graduale, privo delle necessarie competenze e solidità, e ad un'eccessiva commistione tra operatori finanziari ed autorità governative nella scelta delle politiche di investimento.

La compresenza di questi presupposti ha dato luogo ad un'eccessiva esposizione nel settore immobiliare e ad un corrispondente elevato indebitamento in valuta statunitense verso le banche estere.

Le insufficienti liquidità del comparto bancario thailandese, ed i fattori concomitanti precedentemente menzionati, hanno portato i grandi speculatori internazionali ad attaccare poco più tardi la valuta nazionale.

Nel marzo del 1997 la prima società finanziaria thailandese (Finance One Pic) si è arresa alla mancanza di liquidità che il peso dei debiti ha generato dichiarando il fallimento. A nulla sono valsi i tentativi di salvataggio ideati dal governo.

Il sistema nel suo complesso, infatti, era caratterizzato da scarsa solidità patrimoniale; le sofferenze del settore bancario erano superiori al 10% dell’esposizione complessiva (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998).

I forti timori degli investitori per un effetto a catena e la corsa agli sportelli da parte dei risparmiatori fecero crollare ulteriormente la borsa (il cui valore dal marzo 1996 si era più che dimezzato passando dai 1400 ai 683 punti) (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998).

Le misure intraprese dalle autorità governative e monetarie volte a tamponare il circolo vizioso della crisi in cui ci si stava incanalando ebbero, come tutti i rimedi a posteriori e non preventivi, scarso effetto.

L’idea che la crisi potesse estendersi anche ad altri paesi asiatici cominciava ad aleggiare fra gli addetti ai lavori. Tale convinzione era supportata dalla presenza, negli altri paesi, dei medesimi presupposti: calo della crescita e delle esportazioni, ancoraggio al dollaro delle valute, saldo negativo strutturale della bilancia dei pagamenti, concentrazione delle politiche di investimento bancarie nel maturo settore immobiliare (attirate da ipotesi illusorie di alto rendimento).

A testimonianza dell’aggravarsi della crisi thailandese, le agenzie di rating internazionale decidevano, alla fine del primo quadrimestre del 1997, di declassare nuovamente il sistema bancario in relazione alla propria capacità di solvibilità. Questa decisione aggravò ulteriormente la situazione in termini di costo dei finanziamenti.

La Borsa ridusse, inoltre, il suo valore a 561 punti e gli interessi speculativi si fecero sentire in tutta la loro portata a danno della valuta (26,3 bath contro un dollaro, minimo storico negli ultimi sette anni) e delle riserve nazionali (circa 100 milioni di dollari spesi al giorno) (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998). I tassi di interesse continuavano a salire a difesa della valuta.

Il timore che la crisi avesse potuto diffondersi a macchia d’olio era testimoniato dagli interventi esterni che Indonesia, Hong Kong, Malaysia e Singapore continuavano ad effettuare a sostegno della valuta tailandese.

Nel giugno del 1997 l’instabilità politica, dovuta alle dimissioni del ministro delle finanze thailandese, contribuiva al peggioramento della situazione (valore borsistico di 464 punti) ed alla rinuncia, nel mese successivo, alla difesa del bath.

La svalutazione della valuta, precedentemente demonizzata, appariva come l’unica soluzione capace di alleggerire la pressione speculativa e rilanciare le esportazioni a beneficio del saldo della bilancia commerciale.

Ovviamente il deprezzamento forzato del bath ha comportato altresì il negativo aumento dell’esposizione debitoria in valuta statunitense del settore bancario, la crescita del debito estero ed il peggioramento della bilancia dei pagamenti (dovuto sia al connesso rialzo degli interessi sul debito estero e sia alla fuga di capitali originata dalle voci di svalutazione).

Nonostante quella inevitabile decisione del luglio 1997, l’economia thailandese stentava a ritornare alla normalità. Il cammino si sarebbe rivelato ancora impervio e carico di incertezze visto che, fra le altre cose, occorreva rifinanziare il sistema bancario, mantenere il nuovo cambio contro il dollaro (banda di oscillazione iniziale da 29-30 bath contro un dollaro, successivamente portata a 30-32 bath) (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998), ripianare le riserve, abbassare i tassi di interesse per stimolare lo sviluppo e ridurre il costo dei finanziamenti.

Come in una sorta di rete di vasi comunicanti l’alleggerimento della pressione speculativa, in quello che una volta era denominato Siam, si è ripercosso a partire dalla fine di luglio su altri paesi della regione.

Indonesia, Filippine, Malaysia e, in misura minore, Singapore cominciavano a sentire gli effetti di tale ondata negativa.

L’Indonesia e le Filippine decisero, a questo riguardo, di abbandonare anch’esse la banda ristretta di oscillazione delle rispettive valute rispetto al dollaro.

Il venir meno dell’ancoraggio alla valuta statunitense, peraltro da tempo insostenibile, provocò la forte svalutazione del peso e della rupia indonesiana ed un deprezzamento di gran parte delle valute asiatiche.

Questa decisione ebbe, però, come risvolto negativo l’aggravamento della posizione debitoria (in valuta estera) delle istituzioni finanziarie e la fuga di capitali stranieri dovuta alla svalutazione stessa ed al prevalere, nel processo decisionale, della componente sfiducia (condizionata dall’esperienza thailandese) su quella dell’alta redditività (generata dal forte rialzo dei tassi di interesse).

La Thailandia, nel frattempo, continuava a subire più di altri il processo di svalutazione della propria valuta. Questo inarrestabile deprezzamento spinse finalmente le autorità a richiedere l’intervento del Fondo Monetario Internazionale (IMF).

L’organismo internazionale subordinò qualsiasi prestito al varo di un serio piano di risanamento volto a riequilibrare la bilancia delle partite correnti e quella dei pagamenti.

Il piano di risanamento fu varato a tempo di record in agosto; esso prevedeva (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998):

  1. l’aumento delle entrate mediante il passaggio della locale imposta sul valore aggiunto dal 7% al 10%.

  2. il taglio alla spesa pubblica di 100 miliardi di bath; si colpì soprattutto le opere infrastrutturali in corso.

  3. l’obiettivo di limitare il deficit al 5% del P.I.L.

  4. la sospensione di molte società finanziarie.

  5. la costituzione di due agenzie a sostegno e garanzia delle società sospese e non.

  6. la graduale apertura agli stranieri del capitale sociale delle istituzioni finanziarie.

In seguito alla presentazione del piano di ritorno il Fondo Monetario Internazionale ha accordato in un primo momento 16 miliardi di dollari e successivamente 17,2 miliardi (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998).

In settembre, di fronte alla crisi ed agli attacchi speculativi, anche la Malaysia vara un piano controffensivo; esso prevedeva, fra le altre cose, il graduale rilascio dei tassi di interesse, una certa liberalizzazione degli acquisti da parte di stranieri di titoli di nuova emissione e la costituzione di un fondo di circa 20 miliardi di dollari per sostenere il mercato azionario.

Nonostante queste misure il ringitt, e con esso la Borsa, continuavano a perdere valore.

In ottobre le tendenze al ribasso non accennavano a diminuire in tutti i paesi del Sud-est Asiatico. Ciò significava che le contromisure adottate fino ad allora non erano sufficienti e che il mercato continuava a non nutrire fiducia nella ripresa a breve termine dell’area.

In particolare in Indonesia il crescente peso degli interessi sul debito estero faceva incrementare il deficit statale e, nel contempo, la richiesta di fondi al FMI.

In Thailandia, nel frattempo, si dimetteva nuovamente il ministro delle finanze.

La situazione si faceva ancor più insostenibile allorché le agenzie di rating procedevano ad un declassamento ulteriore sia dei titoli di debito di molte banche, sia del debito di alcuni paesi asiatici, fra cui la stessa Thailandia.

Il 23 ottobre 1997 si è avuto un forte cedimento della Borsa di Hong Kong (-10%). Quattro giorni più tardi il calo non accennava a fermarsi (-5,8%) e, a testimonianza della globalizzazione dei mercati, Wall Street ha registrato un netto calo del –7,18%; valore poco più negativo di quello avutosi in media nelle borse europee (circa –6%) (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998).

La crisi, perdurando nel tempo, dava origine nello strato più indifeso delle società sudorientali a profondi malcontenti; si risvegliavano quegli antichi dissapori interetnici che la crescita economica aveva fino ad allora posto in letargo o, quantomeno, mascherato.

In Indonesia, ad esempio, l’astio popolare cominciava a rinascere contro l’affaristica minoranza cinese detentrice, grazie anche all’appoggio clientelare di Suharto, di un forte potere economico.

L’influsso della crisi sui mercati occidentali dimostrava, se ancora c’è ne fosse stato bisogno, come non era più possibile considerare le aree geoeconomiche come dei compartimenti stagno e che l’architettura del sistema finanziario internazionale dovesse in qualche modo essere rivista al fine di evitare, o quantomeno, limitare l’insorgenza di fenomeni di tale portata.

Alla fine di ottobre il Fondo Monetario Internazionale decideva di concedere un prestito di 20 miliardi di dollari all’Indonesia in cambio della liquidazione di alcune banche in grave difficoltà e di altre misure di politica economica (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998).

In novembre lo scenario in cui gli speculatori operano con maggior vigore, sebbene non smetta di coinvolgere la regione sudorientale, si sposta nell’estremo oriente toccando la Corea del Sud ed il Giappone.

L’Indonesia proseguiva per la sua strada di ristabilizzazione dell’economia attraverso la ricerca di nuovi prestiti internazionali.

La Thailandia subiva un ennesimo declassamento da parte delle agenzie di rating in quanto a solvibilità del debito statale; un segnale positivo era comunque dato dal miglioramento che, per effetto della continua svalutazione valutaria, la bilancia commerciale stava registrando.

Il continuo declassamento dei paesi coinvolti dalla crisi ha fatto dubitare molti dei capi di governo di questa regione sulla trasparenza ed i criteri di riferimento con cui operano le agenzie di rating.

Le osservazioni portate avanti da questi leader sembravano, tuttavia, riflettere l’esasperazione che la situazione difficile in essi generava piuttosto che l’analisi oggettiva del ruolo che tali agenzie avevano in un meccanismo di causa-effetto.

Una analoga dura presa di posizione è stata presa, a questo proposito, nei confronti di alcuni grandi speculatori internazionali (vedi Soros) che sembrano essere sempre presenti in occasione di crisi valutarie.

In dicembre continuavano a farsi sentire gli effetti negativi sulle borse e le valute asiatiche. La borsa malese toccava i minimi storici e la svalutazione valutaria colpiva indiscriminatamente tutte le monete.

Nel gennaio 1998 si aggrava la posizione della valuta indonesiana; essa, nel giro di sei mesi, aveva perso circa l’80% del suo valore. Tale deprezzamento, di brasiliana memoria, spingeva i cittadini ad utilizzare la moneta statunitense e catapultava il paese ben indietro nel tempo.

In termini di P.I.L. il balzo all’indietro riesumava i livelli degli anni ’70. Il reddito pro-capite annuo era passato da 1200 dollari a 300 dollari. Il debito estero aveva raggiunto circa i due terzi del P.I.L. (140 miliardi di dollari), di cui più della metà con scadenza a breve termine (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998).

La situazione politica interna non giocava a favore del grande paese insulare: la trentennale presenza di Suharto, e con essa la gestione lobbistica e centralistica del potere, era arrivata ormai al capolinea e le esigenze di un ricambio si stavano amplificando in tutto il paese per effetto della crisi. Cominciarono le prime manifestazioni di piazza e gli attacchi ai negozi di proprietà cinese.

Il FMI condizionò l’elargizione di un prestito di 43 miliardi di dollari all’attuazione di serie misure di politica economica e finanziaria.

In Thailandia si dava corso ad una analoga politica di bilancio restrittiva e si concordava con le banche estere la revisione delle scadenze dei prestiti (93 miliardi di dollari) (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998).

In febbraio la situazione non si modificò sostanzialmente.

Il mese successivo il fulcro della crisi continuava ad essere l’Indonesia che, complice la guida clientelare e poco lungimirante di Suharto, stentava ad intraprendere le riforme e le misure urgenti indicate dal FMI. L’organismo internazionale, visto l’inutile utilizzo del primo troncone del prestito a difesa della valuta nazionale, decideva di ritardare la concessione del secondo fino ad una verifica positiva del sistema economico-finanziario indonesiano.

La rielezione di Suharto oltre a provocare, a livello politico, grosso sconcerto nell’opinione pubblica internazionale, generava ulteriori scontri all’interno del paese.

Sempre in marzo le agenzie di rating declassavano alcune banche di Singapore che, fino ad allora, era stata toccata marginalmente dalla crisi.

In aprile ed in maggio continuavano le tensioni sociali in Indonesia dove, nel frattempo, l’inflazione era salita a circa il 40%, la crescita economica subiva una diminuzione del 5% e la disoccupazione raggiungeva tassi a due cifre (9 milioni) (BELLAVITA-DALLOCCHIO 1998).

Gli scontri di piazza fecero crollare nuovamente la Borsa e la valuta nazionale costringendo il "neoeletto" Suharto a dimettersi.

Questa decisione ha rappresentato una boccata di ossigeno per il paese indonesiano che ha dato la spinta necessaria, soprattutto in termini di fiducia, per cominciare ad intraprendere la lunga strada del risanamento.

A partire dalla metà del 1998 la pressione esercitata su questa regione è cominciata a scemare facendo intravedere l’inizio del risanamento.

Non vi è dubbio che la crisi asiatica abbia lasciato un mucchio di macerie nel Sud-Est Asiatico, soprattutto in quei paesi più fragili economicamente e politicamente.

Essa, a ben vedere, ha bruciato gran parte dei progressi avutisi negli ultimi vent’anni.

Il recente summit di Hanoi non poteva non prendere in considerazione le profonde mutazioni intervenute a causa della crisi e in quest’ottica ha dato luogo a numerosi accordi contenenti misure di cooperazione urgenti destinate a far ripartire i paesi membri. Fra questi vi è stata la decisione di accelerare ulteriormente i tempi dell’AFTA, anticipando la scadenza al 2002.

L’ASEAN ha in questo frangente dimostrato di essere piuttosto unita di fronte alle avversità ma non abbastanza tempestiva. Se vi fossero state delle azioni concertate mirate ad accrescere sin dall’inizio la credibilità attraverso il sostegno finanziario a breve delle istituzioni in crisi, forse si sarebbe evitato lo spargimento a macchia d’olio delle turbolenze in atto.

La sottovalutazione iniziale e l’adozione di politiche di tamponamento, anziché di prevenzione, a livello nazionale e non regionale hanno contribuito in maniera significativa ad esacerbare il fenomeno.

 

2.3 La fisionomia economica prima della crisi

L’espansione in termini sia di crescita fisiologica che di numero di paesi membri (da cinque a dieci) ha mutato le principali variabili socioeconomiche dell’associazione da quando, nel lontano 1967, essa è sorta. La tabella seguente ne evidenzia, attraverso alcuni indicatori, i tratti essenziali inglobando, con dati del 1996, anche Laos e Birmania (ASEAN-9).

 

Tabella 2.3: ASEAN-9, alcuni indicatori socioeconomici (1996)

ASEAN-9

Popolazione
(milioni)

P.I.L.
(milioni di $)

P.I.L.
pro-capite ($)

Esportazioni
(milioni di $)

Birmania

48

9.710

204

1.000

Brunei

0,3

6.120

20.400

2.300

Filippine

69

78.310

1.130

2.500

Indonesia

198

185.740

940

49.800

Laos

5

1.000

204

300

Malaysia

21

80.960

3.930

78.200

Singapore

3

81.840

26.400

125.000

Thailandia

61

164.550

2.680

56.900

Vietnam

76

19.080

250

5.200

Totale ASEAN

   

1.299

 

 

Fonte: ASEAN Secretariat

 

In quasi trenta anni di esistenza la popolazione totale dell’associazione è passata da 191 milioni (1967) a circa 481 milioni (1996) aumentando di due volte e mezzo.

Sotto questo punto di vista l’ASEAN rappresenta un mercato in netta espansione e, in termini assoluti, nettamente superiore a quello del Giappone (125 milioni), degli Stati Uniti (265 milioni) e persino dell’Unione Europea che registra una popolazione di 373 milioni di abitanti.

Anche se si considerasse il NAFTA (Stati Uniti, Canada e Messico), che conta su di un mercato di 385 milioni di individui, l’ASEAN risulterebbe l’organizzazione regionale più popolata del mondo.

Posta però al confronto di alcuni singoli stati asiatici, quali Cina ed India, l’ASEAN rivela la sua limitata dimensione.

In quest’ottica l’armonizzazione, attuata negli ultimi tempi, delle differenti procedure economico-commerciali (standard, nomenclature, certificazioni) e di alcune leggi afferenti i singoli paesi membri sembra un presupposto indispensabile per continuare ad attrarre gli investimenti esteri altrimenti indirizzabili verso il più vasto ed omogeneo mercato cinese ed indiano.

In un’analisi introspettiva della struttura demografica dell’associazione si può notare che, come in passato, essa è molto eterogenea e che l’Indonesia, con i suoi 200 milioni di abitanti, resta di gran lunga il paese più popolato. Tale dimensione influisce indubbiamente nella determinazione dei rapporti di forza all’interno dell’ASEAN.

L’adesione del Vietnam nel 1995 ha contribuito alla crescita strategica dell’associazione, incrementandone il peso demografico (circa 75 milioni). Da questo punto di vista Brunei, Laos e Singapore non rivestono un significativo ruolo.

Focalizzando l’attenzione sul prodotto interno lordo i rapporti di grandezza tra i paesi ASEAN ed quelli sviluppati, presi singolarmente o nell’ambito dei raggruppamenti regionali di appartenenza, la situazione si inverte palesando, fatta eccezione per Singapore, delle economie ancora in via di sviluppo.

Anche in questo caso il panorama offerto è piuttosto eterogeneo: dai 186.000 milioni di dollari dell’Indonesia ai 1000 milioni del Laos.

Questi dati, peraltro, dovranno essere inevitabilmente rivisti al ribasso tenendo in considerazione le vicende negative che hanno interessato la regione negli ultimi due anni.

Spostando l’analisi sul reddito pro-capite, indicatore di sviluppo e pietra di paragone più appropriata, lo scenario cambia completamente e rivela come, eccezion fatta per Singapore e Brunei, il livello di benessere dei paesi membri dell’ASEAN sia piuttosto basso rispetto agli standard dei paesi sviluppati.

Paradossalmente proprio questo indice di sviluppo, se si escludono i due casi sopra menzionati, accomuna i componenti dell’associazione e ne dà un tocco di omogeneità al di là delle suddette differenze di estensione territoriale, demografiche, di prodotto annuo e di quelle etniche, linguistiche, religiose e così via, evidenziate nel primo capitolo.

Per ciò che concerne il volume di scambi commerciali va detto che il totale delle esportazioni ASEAN è cresciuto negli ultimi anni in misura maggiore rispetto alla crescita aggregata del prodotto (THE ASEAN SECRETARIAT 1997); si suppone che la zona di libero scambio introdotta gradualmente (AFTA) ne amplifichi la componente interna.

In particolare, le esportazioni ASEAN sono cresciute di più del 320% dal 1988 al 1996, passando da 100.000 milioni a circa 321.000 milioni di dollari.

Un ruolo determinante è svolto da Singapore che, assieme ad Hong Kong, ha sempre rappresentato, in Asia ed a livello mondiale, un porto ed un nodo di scambio di primo ordine.

Non stupisce notare, a questo proposito, come Singapore registri in termini monetari un volume di esportazioni maggiore del proprio stesso prodotto interno (Tabella 2.3); nel 1990 l’indice percentuale ricavabile dal rapporto tra esportazioni e P.I.L. raggiunse la cifra del 190%.

Il gap quantitativo degli altri paesi membri sta ad ogni modo diminuendo, soprattutto nel caso della Malaysia e della Thailandia.

L’analisi degli scambi intra-ASEAN sarà effettuata nel terzo capitolo allorché si cercherà di fare il punto sulla zona di libero scambio (AFTA), introdotta gradualmente a partire dal 1993, e sul successo o meno, in termini di incremento dei volumi interni di scambio, che tale importante passo verso l’integrazione regionale ha finora determinato.

Nel 1993 le esportazioni erano dirette principalmente verso gli Stati Uniti (20% sul totale), il Giappone (16%) e l’Europa (15%).

Dal lato delle importazioni la tendenza di incremento, verificatasi dal 1988 al 1994, risulta ancora più evidente di quella delle esportazioni.

I principali canali di importazione erano rappresentati nel 1993 dal Giappone (24,5%), dagli Stati Uniti (15%) e dall’Europa (13%).

A conti fatti la bilancia commerciale ASEAN con il resto del mondo, sia pur presentando al proprio interno situazioni molto differenziate, è risultata negativa in questi anni; ciò ha aggravato la posizione debitoria dei paesi membri ed ha rappresentato un presupposto per il successivo sorgere della crisi asiatica.

La considerevole intensificazione del volume di scambi registratosi testimonia come i paesi componenti, e l’organizzazione regionale nel suo complesso, abbiano incrementato il livello di interdipendenza con il resto del mondo.

Prima della crisi economico-finanziaria del 1997-98 due indicatori in particolare facevano ben sperare per il futuro dell’associazione in termini di sviluppo e crescita economica.

Il primo è connesso alla progressiva transizione, iniziata in verità da tempo, di molte delle economie ASEAN da una struttura prevalentemente "agrocentrica" ad una in cui il settore industriale guadagna spazio attestandosi in media su valori vicini al 35-40% del prodotto interno lordo.

I massicci investimenti esteri, in particolare dal Giappone, e la cooperazione industriale posta in essere hanno contribuito a questa trasformazione sintomatica della tendenza di sviluppo.

Un secondo indicatore positivo per l’associazione, e per i singoli paesi membri, è dato dal tasso medio di crescita del P.I.L. registrato negli ultimi decenni.

Limitando l’attenzione al solo 1994 si nota come tale tasso si sia attestato in media al 6,8%. Tale valore, oltre a non discostarsi molto da quelli registratisi in anni precedenti, si rivela molto superiore rispetto a quelli avutisi nei paesi sviluppati.

A ciò si aggiunga che, nello stesso periodo ed astraendo da casi particolari, i tassi di inflazione si sono attestati in media su valori relativamente bassi e, per di più, piuttosto stabili.

In prima approssimazione il bilancio dell’associazione, nella celebrazione del trentesimo anno di esistenza (1967-1997), prima dunque della crisi che ha investito questi paesi, non può essere del tutto negativo vista la capacità che essa ha avuto, rispetto ad altre precedenti esperienze coesive, di sopravvivere a difficili questioni storiche che hanno coinvolto quest’area e visti i progressi avutisi nel campo della cooperazione e dello sviluppo regionale.

Esso, tuttavia, non può parimenti considerarsi del tutto positivo se si considera l’atteggiamento adottato in questi anni da alcuni membri dell’associazione volto più a tutelare i propri miopi interessi che ad amplificare le potenzialità cooperative del gruppo.

La mancanza di organi sovranazionali dotati di poteri sanzionatori hanno, a questo proposito, favorito il prevalere di alcune scelte dettate da interessi particolari piuttosto che di altre più coraggiose e miranti al beneficio comune.

Tale tendenza ha indubbiamente rallentato il processo di integrazione regionale.

Il raggiungimento dell’accordo AFTA, a questo proposito, è stato molto significativo ed ha denunciato, forse, il più importante cambiamento di rotta dell’associazione dai tempi della sua fondazione.

Con esso si può iniziare a parlare di vero e proprio processo di integrazione regionale, ove per esso si intenda un fenomeno di cooperazione e coesione tale da raggiungere un "punto di non ritorno" (DOSCH-MOLS 1994).

L’efficacia della zona di libero scambio, analizzata nel terzo capitolo, sarà l’argomento che più coinvolgerà il raggruppamento negli anni a venire.

Purtroppo, come accennato, a spezzare il filo della crescita sostenuta è intervenuta, a partire dal 1997, la crisi economico-finanziaria che ha coinvolto, in maniera più o meno grave, molti dei paesi ASEAN e che si è propagata a macchia d’olio investendo gran parte del continente asiatico. Le ripercussioni, a dimostrazione della crescente interconnessione economica globale, non si sono fatte attendere, sia pur in misura minore, nel resto del contesto internazionale.

 

2.4 La struttura organizzativa dell’ASEAN: ragioni della sua flessibilità e margini di miglioramento

La struttura organizzativa dell’ASEAN, trattandosi di una organizzazione regionale ad uno stadio di integrazione elementare, non è mai stata eccessivamente estesa e ramificata se comparata con quella europea.

Il Segretariato, primo vero organismo operante in modo sistematico e continuo, è stato concepito solo nel 1976, a nove anni dunque dalla nascita del raggruppamento regionale, e per lungo tempo non ha goduto che di poteri marginali connessi all’attività di mero supporto all’associazione.

Gli altri organismi configurati, a parte il Comitato Permanente ASEAN con le sue varie ramificazioni ed altre rare eccezioni, sono tuttora la sommatoria dei rappresentanti delle istituzioni dei singoli stati; dagli esponenti più elevati, nelle persone dei capi di governo e di stato (Summit ASEAN), passando per i vertici che riuniscono le figure ministeriali (AMM, AEM), fino ad arrivare ai livelli più bassi, rappresentati dagli alti funzionari dei vari ministeri dei singoli paesi (incontri SOM, SEOM ecc.).

Mancano, a differenza dell’Unione Europea, degli organi legislativi, esecutivi e giudiziari che abbiano un autonomo potere sovranazionale o che, quantomeno, abbiano dei forti poteri legiferanti, di indirizzo o sanzionatori sull’entità regionale.

L’ASEAN ha adottato, sin dagli inizi, un approccio basato sul consenso nelle decisioni che la investivano (OKAMOTO 1995).

Ciò, come accennato, ha influito notevolmente sulla storia dell’ASEAN in termini di rapidità e capacità di imposizione di alcune scelte che, nonostante potessero rivelarsi nel breve termine controproducenti per gli interessi di alcuni singoli paesi, avrebbero comportato un beneficio dell’associazione nel suo complesso.

L’ASEAN, dunque, ha dovuto affrontare sin dalla sua fondazione i limiti di una struttura organizzativa e decisionale che doveva fare i conti con gli interessi, spesso miopi, ed i veti delle singole nazioni partecipanti.

Non stupisce che la continua necessità di compendiare interessi molto spesso divergenti abbia rallentato il processo di integrazione regionale.

La scelta di non dotare l’associazione di organi sovranazionali deriva dalla natura stessa del legame associativo che, a differenza di quello europeo, rimane ad un livello elementare.

L’ASEAN, nonostante la trentennale esistenza e per quanto abbia generato una ramificata struttura cooperativa, rimane a tutt’oggi una zona di libero scambio (peraltro non ultimata) mentre l’Unione Europea, complice fra le altre cose una maggiore omogeneità dei suoi popoli, ha raggiunto un ben più alto grado di integrazione (economica, giuridica ed ora monetaria). Alla UE, per completare il proprio processo di integrazione, manca a questo riguardo soltanto lo stadio politico.

Le ragioni che hanno portato l’ASEAN ad un simile orientamento, nella scelta della formula regionale, sono di ordine prevalentemente storico e politico.

Le ragioni storiche devono essere ricercate nella relativa giovinezza degli stati membri. Acquisita da poco l’indipendenza non si poteva pensare di dar vita ad una forma di aggregazione regionale che limitasse già in partenza la sovranità appena acquisita.

Le ragioni politiche, intimamente connesse a quelle storiche, hanno fatto prevalere la concezione di un legame infraregionale quanto più flessibile, non eccessivamente vincolante, capace di compendiare gli interessi poco complementari dei paesi componenti.

Tale orientamento ha anche mostrato la sua validità allorché, soprattutto in occasione della guerra del Vietnam e del conflitto cambogiano, una struttura organizzativa troppo rigida e non basata sul mutuo consenso avrebbe potuto provocare il collasso dell’associazione.

Se questa concezione poteva essere comprensibile nel primo trentennio di esistenza dell’associazione ora, alla luce anche delle nuove sfide che devono affrontare i paesi ASEAN nel mutato contesto economico, essa sembra essere meno giustificabile.

Il ripensamento della struttura organizzativa verso criteri di maggiore autonomia, regolarità d’azione e sovranazionalitá dei poteri decisionali, sullo stampo di quelli europei, potrebbero far compiere un salto di qualità non indifferente all’ASEAN.

Conditio sine qua non perché ciò avvenga è la volontà politica degli stati membri di rivedere i termini del proprio legame associativo.

Questa strada sembra comunque piuttosto lontana, visto che quattro dei dieci paesi membri (Vietnam, Laos, Myanmar e Cambogia) sono entrati a far parte dell’associazione piuttosto recentemente ed avranno bisogno di un lungo periodo di assestamento prima di uniformarsi del tutto all’attuale stadio di integrazione.

Qui di seguito sono esaminati uno ad uno gli organi che attualmente compongono l’ossatura dell’associazione.

 

2.4.1 Summit ASEAN (ASM)

Il vertice tra capi di governo e capi di stato dei paesi membri dell’ASEAN (ASM) è la massima autorità dell’associazione.

Tale supremo organo, compiendo le scelte di indirizzo fondamentali e ratificando gli accordi ed i trattati, rappresenta a tutti gli effetti l’entità che maggiormente decide le sorti del raggruppamento regionale.

Esso, vista anche la frequenza con cui ha luogo, non ha la pretesa di svolgere un compito continuativo nell’amministrazione e nella gestione della cooperazione ASEAN ma, essendo formato dai massimi vertici politici, compie i passi più importanti dell’organizzazione e riveste indubbiamente un ruolo chiave nel processo di integrazione regionale.

In seguito alla decisione presa in occasione del vertice di Singapore del 1992, tale summit formale si tiene a cadenza triennale nel paese membro scelto a rotazione in base all’ordine alfabetico dei componenti.

Nel 1995 sono stati introdotti i cosiddetti summit informali per rendere più frequente la consultazione ai massimi livelli. Essi hanno luogo almeno una volta entro il triennio che separa i vertici formali. A tutt’oggi vi sono stati sei summit formali e due summit informali

 

2.4.2 Vertice Ministeriale ASEAN (AMM)

Il Vertice Ministeriale ASEAN, essendo sorto in base alla Dichiarazione di Bangkok del 1967, è fra i più antichi organi dell’associazione ed è dotato, eccezion fatta per il summit, del livello di potere decisionale più ampio ed elevato all’interno dell’organizzazione.

Esso è generalmente composto dai ministri degli esteri dei singoli paesi membri ma, quando necessario, può anche includere ministri competenti in altri settori.

Ha la responsabilità della formulazione delle linee guida politiche e del coordinamento delle attività diplomatiche, sociali e culturali dell’ASEAN.

Si tiene una volta all’anno in una della capitali, scelta a rotazione, dei paesi membri.

Assieme ai ministri economici (AEM), l’AMM svolge una azione di consiglio e di supporto nel corso dei summit ASEAN.

Alcuni paesi estranei all’associazione possono essere invitati a partecipare al vertice in qualità di osservatori; Vietnam e Laos, ad esempio, prima di entrare nell’associazione rivestirono questa veste in occasione del 26º AMM (1993).

 

2.4.3 Vertice Ministri Economici ASEAN (AEM) – Consiglio AFTA

Concepito nel 1977 in occasione del summit di Kuala Lumpur, l’AEM è l’organo responsabile della formulazione della politica di cooperazione economica dell’associazione.

Il livello di importanza di tale organo è pari a quello del AMM se non fosse che il campo di azione in cui agisce è limitato essenzialmente alla sfera economica.

Esso è formato dai ministri economici dei singoli paesi membri e si riunisce, formalmente od informalmente, almeno una volta l’anno.

Assieme ai ministri degli esteri (AMM), l’AEM svolge una azione di consiglio e di supporto nel corso dei summit ASEAN.

Il Consiglio AFTA, ad esso strettamente collegato, è stato stabilito nel 1992 in occasione della decisione di introduzione progressiva della zona di libero scambio ASEAN (AFTA); esso è chiamato a supervisionare, coordinare e revisionare l’implementazione dello schema CEPT di riduzione delle tariffe.

 

2.4.4 Vertice Ministeriale Congiunto (JMM)

Stabilito nel 1987 (Manila summit), tale vertice riunisce congiuntamente i ministri degli esteri ed i ministri economici precedentemente menzionati.

Esso facilita la consultazione ed il coordinamento ad alti livelli delle attività dei diversi settori di cui l’AMM e l’AEM sono rispettivamente competenti.

La presidenza del vertice è affidata congiuntamente al presidente del AMM e del AEM.

Ricorre ad intervalli non regolari e generalmente prima di ciascun summit in modo da prepararne il terreno e facilitarne il compito.

 

2.4.5 Vertice di altri Ministri Settoriali ASEAN

Riunione dei ministri responsabili di altri settori economici (Finanze, Agricoltura e Foreste, Risorse Energetiche, Turismo, Trasporti ecc.).

Tali ministri riferiscono e rispondono direttamente all’AEM e si incontrano (ad eccezione dei ministri delle Finanze) solo quando necessario.

 

2.4.6 Vertice di altri Ministri ASEAN

Riunione dei ministri responsabili di altri settori di cooperazione non economica (Ambiente, Benessere Sociale, Educazione, Gioventù, Giustizia, Informazione, Lavoro, Sanità, Scienza e Tecnologia, Sviluppo Rurale ecc.).

Tali ministri svolgono la propria attività in un’ottica di coordinamento con l’AMM ma riferiscono e rispondono direttamente al summit ASEAN. Ricorrono regolarmente.

 

2.4.7 Comitato Permanente ASEAN (ASC)

Tale comitato è il braccio politico operativo e l’organo permanente di coordinamento dell’ASEAN che opera tra un vertice AMM e l’altro.

Esso riferisce direttamente al AMM e svolge un ruolo di consulenza e di revisione del lavoro effettuato dagli altri specifici comitati permanenti.

Ha, altresì, un ruolo operativo nell’implementazione delle linee guida politiche stabilite dal AMM.

 

2.4.8 Incontro Alti Funzionari (SOM)

Introdotto istituzionalmente nel 1987 (summit di Manila) tale incontro, trattandosi di alti funzionari e non di ministri, è responsabile della cooperazione politica ad un livello inferiore rispetto all’AMM.

Gli alti funzionari si riuniscono quando necessario e riferiscono direttamente all’AMM.

 

2.4.9 Incontro Alti Funzionari Economici (SEOM)

Anch’esso introdotto in occasione del summit di Manila, tale organo, similmente al SOM, cura la cooperazione economica ad un livello inferiore rispetto all’AEM.

Gli alti funzionari economici dei rispettivi ministeri (Industria, Commercio, Finanze) si riuniscono regolarmente e riferiscono direttamente all’AEM.

Tale organo, a partire dal 1992, ha inglobato le competenze precedentemente attribuite a diversi comitati responsabili per gli stessi settori.

 

2.4.10 Incontro Consultivo Congiunto (JCM)

Previsto, ancora una volta, dal summit del 1987 tale incontro riunisce il Segretario Generale ASEAN, il SOM, il SEOM ed i Direttori Generali ASEAN.

Risponde all’esigenza di coordinamento, a livello degli alti funzionari (ad eccezione del Segretario Generale che gode di status ministeriale), delle attività ASEAN pertinenti diversi settori.

Riferisce, per voce del Segretario Generale, all’AMM e all’AEM.

 

2.4.11 Comitati ASEAN in paesi terzi partner di dialogo

Tali comitati sono responsabili delle relazioni esterne intercorrenti con i paesi terzi partner di dialogo e con le organizzazione internazionali.

Sono composti dai capi diplomatici delle proprie rappresentative presenti nei rispettivi paesi e sono incaricati di condurre incontri consultivi con ciascun governo.

Attualmente sono quindici (Bonn, Bruxelles, Canberra, Ginevra, Islamabad, Londra, Mosca, Nuova Delhi, Ottava, Parigi, Pechino, Seoul, Tokyo, Washington, Wellington).

Tali comitati riferiscono ed agiscono in base alle direttive del Comitato Permanente ASEAN (ASC).

 

2.4.12 Segretariati Nazionali ASEAN

I Segretariati Nazionali ASEAN sono presenti in ogni paese membro presso ciascun Ministero degli Esteri.

Essi sono responsabili dell’organizzazione e dell’applicazione a livello nazionale delle attività poste in essere dall’associazione.

A loro capo vi è un Direttore Generale.

 

2.4.13 Segretariato ASEAN

Introdotto nel 1976, il Segretariato ASEAN di Giacarta ha svolto, come è stato giustamente notato, un ruolo di "ufficio postale" sino al 1992, anno del suo rilancio.

A partire dal summit di Singapore, infatti, si è cercato di amplificarne i poteri attribuendo nuove responsabilità di iniziativa, di consulenza, di coordinamento e di implementazione delle attività ASEAN. Gli si è attribuito, inoltre, lo status ministeriale.

Il Segretariato è diretto dal Segretario Generale ASEAN e da due sottosegretari ciascuno responsabile di determinati uffici e competenze.

Esso è suddiviso in quattro sezioni o agenzie provviste ciascuna di proprie competenze:

Cura l’implementazione ed il monitoraggio dell’AFTA e tutti i problemi connessi all’eliminazione delle barriere non tariffarie, all’armonizzazione della nomenclatura tariffaria, alle procedure doganali e alla fissazione degli standard e delle certificazioni di conformità.

Cura tutto ciò che riguarda il settore industriale, agricolo, alimentare, finanziario, bancario, dei servizi, degli investimenti, della proprietà intellettuale, dei trasporti ed energetico. Svolge inoltre attività di supporto ai vari ministri ed alti funzionari responsabili in questi settori.

Cura la cooperazione nel settore scientifico, tecnologico, ambientale, culturale, sociale, dell’informazione e della prevenzione della tossicodipendenza.

Gestisce anche il recente progetto di cooperazione ed interconnessione universitaria (ASEAN University Network).

Assiste il Comitato Permanente ASEAN (ASC) nello svolgimento dei suoi compiti. Svolge inoltre attività di supporto ai vari membri dell’associazione in vista degli incontri sostenuti con i paesi partner di dialogo.

Lo staff che vi lavora (35 persone attualmente) è assunto in base a libero reclutamento senza imposizione di quote nazionali.

 

2.4.14 Segretario Generale ASEAN

Il Segretario Generale, nominato dal summit ASEAN in base ai meriti e sotto suggerimento dell’AMM, ha il compito di contribuire al coordinamento ed alla implementazione delle politiche, dei progetti e delle attività poste in essere dagli altri organi ASEAN.

Egli è assistito, nello svolgimento delle sue funzioni, da due sottosegretari: al primo compete la materia AFTA e la cooperazione economica, al secondo compete l’area della cooperazione funzionale della cooperazione ASEAN e delle relazioni esterne con i paesi partner di dialogo.

Si è recentemente conferito a tale figura lo status di ministro con mandato di iniziativa, consulenza, coordinamento ed implementazione delle attività ASEAN.

Il Segretario Generale risponde del suo operato di fronte al summit, ai vertici ministeriali ASEAN ed al presidente del Comitato Permanente ASEAN.

Egli, inoltre, presiede le riunioni del suddetto comitato congiuntamente con l’effettivo presidente (ad eccezione della prima e dell’ultima riunione).

 

2.4.15 Unità AFTA

Istituite nel 1995 le Unita AFTA sono incaricate di garantire il monitoraggio e l’efficienza nell’implementazione dello schema CEPT e di offrire delle soluzioni per gli eventuali problemi applicativi ad esso connessi.

Essi inoltre, essendo presenti a livello governativo e presso il Segretariato ASEAN, agiscono da anello di congiunzione tra i massimi vertici di ciascun paese ed i rispettivi settori privati, accogliendone i quesiti e le eventuali lamentele.

 

     

È possibile consultare alcune mappe ed immagini sull'ASEAN e sul Sud-Est Asiatico.

 

 

 

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